“Dare alla fotografia una pulsazione emozionale del tutto nuova. E prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso…”.
di Alessandro Carli
New York, Berlino, Tokyo e Londra. Sono solo alcune delle città che hanno ospitato, tra il 1954 e il 2014, le fotografie di Mario Giacomelli, il Maestro marchigiano (oltre alle immagini, nella sua vita si dedicò anche alla pittura e alla poesia).
A Senigallia, la sua città, alcune belle opere sono custodite all’interno del Museo comunale d’arte moderna, dell’informazione e della fotografia. Senza doversi sobbarcare migliaia di chilometri (Senigallia è a circa 70 km da San Marino), vi consigliamo di andare a visitarlo.
Non prima di aver letto parte della sua vita, ma soprattutto la sua poetica, la sua arte. Alessandra Spigai la sintetizza con grande precisione: Maestro crudo.
E’ più chiaro invece Achille Bonito Oliva che, nell’introduzione del libro volume “Mario Giacomelli. Sotto la pelle del reale”, scrive: “Il doppio sguardo di Giacomelli entra nelle pieghe della realtà, ne identifica i simboli, ne trova l’essenza fino quasi ad astrarre l’oggetto e trasformarlo in emozione, idea, poesia”.
GIACOMELLI, L’ARTE DELLA FOTOGRAFIA
Non si diventa artisti. Si nasce. E lui “lo nacque”. Basta avere lo sguardo, e la capacità di cogliere quello che gli occhi osservano.
Nel 1953 Mario Giacomelli compra una Bencini Comet S, una macchina fotografica molto semplice. Il giorno di Natale va al mare e scatta le sue prime fotografie. Da questa prima passeggiata nasce “L’approdo”, il celebre scatto della scarpa trasportata dalle onde del mare sulla battigia.
Ma è tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta che “escono” con forza inncantevole i suoi fotoracconti più intensi e celebri, rigorosamente in bianco e nero: “Lourdes” (1957), “Scanno” (1957/59) e soprattutto “Pretini” (1961/63).
L’immagine che l’ha reso famoso è senza dubbio quella scattata al bambino di a Scanno, in Abruzzo. La fotografia ritrae in maniera fiabesca, quasi irreale, delle figure femminili scure e mosse che avanzano verso l’osservatore mentre un unico soggetto centrale è fermo e a fuoco: un bambino che cammina con le mani in tasca. La serie “Scanno”, da cui l’opera proviene venne resa pubblica da Giacomelli poco tempo dopo ma solo nel 1964 riscosse vera notorietà e apprezzamento da parte del mondo della fotografia. Avvenne, per essere precisi, quando John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA di New York scelse di esporre l’opera alla storica mostra “The photographer’s eye”. Tra migliaia di foto visionate, assieme a Giovanni Bonicelli, Giacomelli è l’unico italiano che verrà selezionato per questa esposizione passata alla storia.
In “Lourdes” invece si avverte il silenzio e la speranza delle persone malate, in fila per provare e chiedere un miracolo. Riempiono gli occhi poi i suoi paesaggi, visti dall’alto: la matria, la “patria mamma”, solcata dalle rughe del lavoro, dagli aratri che la lavorano, dal nascere successivo delle piante e delle verdure, dai declivi che hanno anticipato la presenza dell’uomo.
Ma è forse con “Pretini” che si respira il cuore della città marchigiana: l’artista “ferma” alcuni giovani di Senigallia che giocano, sorridendo, in mezzo alla neve. Fortissimo il contrasto delle tonalità (agli abiti neri dei preti fa da contralto il candore delle neve, tirato sino quasi a scomparire, o a isolare dal contesto le figure umane) e immediata la resa dell’attimo fermato.
Stringono il cuore poi gli scatti denominati “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Il titolo di una raccolto poetica di Cesare Pavese in Giacomelli si trasforma in ricerca d’amore. E al Museo di Senigallia si può incontrare il tenero gesto di contatto e calore tra due persone anziane.
GIACOMELLI: IL MANIFESTO
“Per me che uso la macchina fotografica è interessante uscire dal piano orizzontale della realtà, avere la possibilità di un dialogo stimolante perché le immagini abbiano un respiro irripetibile. Riscrivere le cose cambiando il segno, la conoscenza abituale dell’oggetto, dare alla fotografia una pulsazione emozionale tutta nuova. Il linguaggio diventa traccia, necessità, spirito dove la forma si sprigiona non dall’esterno, ma dall’interno in un processo creativo. Lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco mangiato, il nero chiuso sono come esplosione del pensiero che dà durata all’immagine, perché si spiritualizzi in armonia con la materia, con la realtà, per documentare l’interiorità, il dramma della vita. Nelle mie foto vorrei che ci fosse una tensione tra luce e neri ripetuta fino a significare. Prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima, c’è un accordo perché la realtà non esca come da una fotocopiatrice, ma venga bloccata in un tempo senza tempo per sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno dell’inconscio. Il linguaggio è così la coscienza espressiva interna che ha accarezzato la realtà pur rimanendo fuori, è l’attimo originale, testimone di una realtà tutta mia, un prelievo fatto sotto la pelle dell’oggetto, guidato fuori dalle regole per una libertà che è anche allargamento alle possibilità del reale”.