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C’erano una volta… i giochi di una volta

da Redazione

Le attività prima dei dispositivi elettronici: i nonni che si trasformavano in ingegneri di pista (ma solo per le biglie al mare), i bambini che disegnavano con i gessetti sull’asfalto, l’arte delle fionde di legno.

 

di Alessandro Carli

 

Ci sono frasi che ti si incollano alle orecchie, specie se pronunciate dalle persone anziane. “Avevamo meno possibilità, ma ci divertivamo di più”. Possibilità economiche? No, assolutamente. Nei giochi. Si è avvolti dal fascino quando i nonni raccontano i modi che si inventavano per socializzare. Fascino e ammirazione. Il loro mondo ludico è memoria lontana, sfida, aria aperta, creatività. Oggi, tra videogiochi sugli smartphone, Playstation e molti altri dispositivi elettronici, il mondo e le “gare” non hanno rincorse, fiatoni e strette di mano ma solamente velocissimi movimenti con le dita.

Chi ha avuto la fortuna di avere i nonni, spesso avrà ascoltato le loro memorie. E’ vero che i vecchi, quando accarezzano, hanno il timore di far troppo forte. Però sanno anche essere leggeri come farfalle, soprattutto quando sorridono. Soprattutto quando i nipoti chiedono che tipo di giochi facevano quando erano bambini. Sino alla generazione nata negli anni Settanta – i pre pre nativi digitali, quelli cioè che “al massimo c’era il Vic 20 o il Commodore 64 o tuttalpiù qualche sala giochi” -, è esistita una sorta di memoria parentale: i nonni sono stati un tesoro di creatività e semplicità. I nonni hanno insegnato a prendere un ramo e a costruire un arco, intagliare una fionda, fare le capriole a terra, sporcarsi le ginocchia senza per questo dover farsi disinfettare con il mercurio cromo. I nonni hanno avuto la pazienza e l’orgoglio di vedere i nipoti divertirsi “come facevano loro”. Una palla, una stretta di mano, due pali inventati sul momento, una “conta” per definire le squadre. Sempre e rigorosamente all’aria aperta. Per chi poi è cresciuto in montagna – quelle che circondano Asiago sono solamente poco più basse del Titano – l’evoluzione tecnologica dei giochi è arrivata in maniera molto dilatata, quasi lenta: ci si affidava alla natura, a quello che offriva.

Costruire una casa su un albero, sfidarsi al gioco della “lippa”, o a nascondino, o al “campanon”, la “campana”, la “settimana”. Una strada, un gessetto per disegnare le caselle, e un sassolino. O a credersi novelli Robin Hood. O a lanciarsi in gare appassionanti sulla neve, muniti di slittini che appartenevano ai nonni, o di semplici sacchi neri dell’immondizia. O a chi si arrampicava sugli alberi prima degli altri. O a chi costruiva la spada di legno più grande e poi, con un po’ di rami, faceva una corona. Ci si sfidava con le macchine di ferro o con prototipi in legno e latta, o con qualche oggetto rinvenuto in casa e riadattato: venivano lanciate, con decisione e delicatezza, lungo circuiti improvvisati. O con i tappi delle bottiglie che, dopo essere stati pressati, diventavano piccoli dischi. C’erano poi i giochi del mare. I castelli di sabbia, le piste per le biglie. I nonni, almeno alcuni, perlomeno il mio, erano architetti della fantasia.

Il mio nonno Gionson impiegava anche intere mattine nelle estati veneziane del Lido per edificare stradine strettissime, trampolini e buche maligne, montagne da scalare – così simili alle sue, a quelle dell’altipiano di Asiago – e poi chiamava a sé tutti i bambini. Era un momento di festa, di contatto. Potevi vedere i sorrisi degli amici.

Un capitolo a parte poi era rappresentato dai giochi per le bambine, spesso snobbati dai maschietti. In questo delicato rito di iniziazione, le nonne erano maestre. Quando le nonne erano bambine, giocavano a saltare la corda o costruire le bambole di pezza: due bastoncini di legno, la carta e una pezza. Per prima cosa sotto la carta mettevano i due bastoncini di legno per fare le gambe, dopo la pezza sopra la carta e alla fine legavano un laccio di lana. Per fare le braccia prendevano un legnetto lungo e lo attorcigliava attorno. Ci si sentiva mamme già a 5 o 6 anni, e si coccolavano questi pupazzetti, con tutte le attenzioni che richiede un bebè. Una forma di gioco era anche il “far filò”. Si usava nella società contadina, nelle stalle: “far filò”, chiacchierare e raccontare ai bambini storie e fiabe intorno al fuoco, le sere d’inverno. La mia nonna ancora se lo ricorda: un gioco orale, di narrazione, dove assieme ai personaggi ci sono anche le persone.

Nessuna nostalgia per il passato, ma solo curiosità verso i bambini di oggi. Giocano spesso seduti – questa la prima, immediata impressione – e a testa bassa.

Hanno gli occhi sugli schermi. Molti, non tutti chiaramente. La seconda impressione è che i nonni non sappiano più trasmettere le loro memorie, le regole dei loro divertimenti. I bambini sono diventati più pigri. E spesso i genitori hanno paura che si possano far male, se giocano all’aperto. Non è solo iperprotettività, ma anche mancanza di dialogo. Di impegno. Di condivisione. Giocare agli stessi giochi può essere una trasmissione culturale. Che unisce, e fa tornare, anche se solamente per un pomeriggio, ancora una volta bambini.

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