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Henri Cartier-Bresson, l’occhio del secolo

da Redazione

Fa tappa all’Ara Pacis di Roma la mostra del grande maestro francese: oltre 500 foto in esposizione per capire meglio la storia e le persone del Novecento.

 

di Alessandro Carli

 

Se Parigi val bene una messa, Roma val bene un viaggio, specie se la “città eterna” ospita, nel piano basso dell’Ara Pacis, oltre 500 fotografie del maestro francese di Henri Cartier-Bresson. La mostra, già presentata al Centre Pompidou, sino al 25 gennaio fa tappa sul Lungotevere in Augusta: un’occasione da non perdere.

Infatti…

Ora: HCB è il Novecento, il siècle in movimento. Le sue gambe, il suo sguardo e la sua fedelissima Leica l’hanno percorso pressoché interamente. Sul campo, nei luoghi, tra le persone.

E la mostra, ben curata da Clément Chéroux, è un percorso cronologico, storico e preciso, del percorso artistico del Maestro.

 

I TRE PERIODI

Surrealismo, impegno politico e fotoreportage. Sono questi, in estrema sintesi, le tre fasi che hanno scandito quell’atto fedele di sovrapposizione tra la sua vita e lavoro. E la mostra le ripercorre e le illustra a piene mani. Il Cartier-Bresson più famoso è figlio di un percorso iniziato nel 1926 quando, nella Citè, frequenta i surrealisti e ne rimane affascinato: André Breton, soprattutto, e quel “vedere” la realtà. Sono del decennio che va dal 1926 al 1935 i primi approcci all’arte figurativa: dipinti, disegni a matita (“Ho sempre avuto la passione per la pittura – scrisse Cartier-Bresson –. Da bambino, la facevo il giovedì e la domenica, ma la sognavo tutti i giorni”), alcune fotografie (specie quelle degli anni Venti) che oggi appaiono “acerbe” ma che, a uno sguardo più ravvicinato, mostrano i primi rudimentali segni della sua poetica. Poetica che “esplode” nei viaggi all’estero che HCB inizia a intraprendere a partire dai primi anni Trenta: Messico, ma anche in Africa. Paesi lontani, fatti di visi segnati, prostitute, miseria, fatica. Ai chilometri che macina, fanno da contraltare i passi e l’amore per la sua città. E’ del 1932 la famosissima fotografia scattata dietro alla stazione di Saint Lazare, quella dell’uomo che salta sopra una pozzanghera d’acqua. In un gioco di ombre straordinario (il protagonista è un fantasma nero senza volto, pesante per fattezze ma leggerissimo nel suo gesto) e di riflessi, si ferma per l’eternità l’attimo.

Un anno dopo lo troviamo a Siviglia, in Spagna. La sua macchina fotografica segue il suo occhio e racconta una scena straziante e allo stesso tempo piena di speranza. Un muro squarciato fa da sipario a un gioco di bambini, che corrono. Lo sguardo però si ferma su una figura, un bambino con le stampelle che, pur soffrendo, non vuole perdersi la possibilità di condividere con i suoi coetanei un attimo di leggerezza.

La sua forza narrativa esplode tra il 1936 e il 1946: sono gli anni del grande impegno politico, della consapevolezza dell’importanza della fotografia come strumento di racconto dei fatti, della verità. Già nel servizio fatto alla fine degli anni Trenta in occasione dell’incoronazione di Giorgio VI “esce” la necessità del suo “raccontare” nuovo e soggettivo. Chiunque si sarebbe concentrato sul sovrano. Non lui. Siamo a maggio e HCB viene inviato dalla rivista comunista “Ce soir” a documentare la cerimonia. Il maestro decide di cambiare prospettiva e rivolge l’obiettivo della sua Leica al popolo inglese. Il servizio, bellissimo, viene pubblicato sulle pagine del giornale. La fotografia che forse racconta con la massima sintesi e la maggior forza narrativa quella giornata ha un taglio verticale: due foto in una, o forse di più. In alto, la concentrazione e l’attesa delle persone, la curiosità scritta nei loro occhi e nei loro vestiti. Uomini, donne e bambini, con i vestiti buoni per la festa. Nella parte più bassa, un uomo che dorme in mezzo ai depliant e alle cartacce, stravolto da uno sforzo e probabilmente non interessato al momento. Un uomo che ha vissuto la preparazione della cerimonia, ma che poi è stato piegato dalla fatica. Due facce dello stesso evento, distanziate da pochissimi metri, che non comunicano tra di loro ma che dialogano solo per il visitatore.

Straordinarie poi le immagini dei suoi viaggi in Italia – Venezia, Siena, Poggio Reale – e quelle che ha scattato in occasione dei funerali di Mahatma Gandhi. Al centro, la catasta di legna e il fuoco, il rogo. Elemento di grande impatto visivo che però, dopo pochi attimi, passa in secondo piano. Anche in India, fedele alla sua poetica, ha voluto raccontare le persone, la calca disperata per aver perso una guida.

Il terzo periodo, quello più lungo (1946-1970) è imperniato sulla fondazione dell’agenzia Magnum e sul lento abbandono della fotografia: lascia la sua Leica e si dedica al disegno.

L’uomo, dopo aver viaggiato, torna ad essere uomo. Prima di arrivare all’uscita, si incontrano le fotografie che ha scattato al pittore Henri Matisse, ad Alberto Giacometti, a Truman Capote.

Poi, quasi esclusivamente disegni. Autoritratti, di diverse dimensioni. Dopo aver immortalato volti, mani e abitudini degli altri, nell’età della vecchiaia si è concentrato sul suo volto. Per capire chi e cos’è diventato dopo milioni di chilometri, viaggi, persone, attese. Un Ulisse del Novecento che solo alla fine ha deciso di rivolgere lo sguardo su se stesso.

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