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Loris, il capitano Achab che ha imparato ad amare il mare

da Redazione

Sorridente, cavaliere della penna d’altri tempi, generoso: un ragazzo che sapeva fidarsi di chi lavorava con lui. Il direttore nella quotidianità della redazione: l’amore “stilnovista” per la moglie Simona, la sua stretta di mano vigorosa, la capacità di ascoltare, il modo di fotografare…

 

di Alessandro Carli

 

Non è mai facile scrivere in prima persona quando – per lavoro – si raccolgono e si raccontano le affermazioni degli altri. Quando, insomma, ci si limita alla propria firma. Passare dalla terza persona alla prima, utilizzare il tempo passato o presente per i verbi, mentre quella stessa parola – “tempo” – vive tra lacerazione e memoria. Scrivere e, in qualche modo, essere allo stesso tempo oggetto e soggetto. Ancora più complicato è riuscire a trasportare su carta uno stato d’animo ancora confuso, incredulo, e donare – forse tratteggiare – il ritratto di Loris.

Il nostro primo incontro risale a moltissimi anni fa, primi anni 2000, all’interno della redazione del quotidiano La Voce di Rimini. Lui era il caporedattore delle pagine sportive, io un semplice collaboratore della cultura e dello spettacolo. Loris aveva già un percorso solido alle spalle, fatto di cronache di calcio per “Il resto del Carlino” già ai tempi delle scuole superiori, io muovevo i primi passi – timidissimi – in quel catino che si chiama “teatro”, un luogo di ombre e personaggi strani.

Quando entravo in redazione, Loris mi accoglieva sempre con un “ciao” energico e un sorriso. Un gesto raro e prezioso, per chi ha avuto l’occasione di frequentare le redazioni dei giornali. Un giorno mi chiese se avevo voglia di scrivere un articolo sul motomondiale. Gli chiesi che taglio volesse. Lui, marinaio delle parole, mi disse solo di scrivere. Loris, anche per l’esperienza che si era costruito negli anni nello sport correggendo i pezzi dei “bocia” – così chiamava i giovanissimi collaboratori che venivano sguinzagliati a seguire le partite di calcio delle serie minori, si fidava. Per un paio d’anni scrissi per lui le gare delle due ruote. La domenica era l’appuntamento fisso. Un saluto e stop: non c’era bisogno di spiegare. Nel 2006 le nostre strade si sono separate: io sono venuto a San Marino Fixing, lui sempre a “La Voce”. Un saluto, quando capitava, sempre molto sincero.

Nel 2008, a metà estate, mi ha raggiunto sul Monte. Ricordo ancora, in maniera nitida e con un sorriso, l’incontro che Carlo Giorgi preparò. Mi chiamò, assieme alla redazione – Roberto e Saverio – nella sala riunioni di ANIS. Poi fece uscire dal proprio ufficio Loris, il nostro nuovo direttore. Loris entrò con il suo passo, che era unico e non riproducibile. Si presentò alla redazione e si iniziò subito a lavorare.

La prima sorpresa fu l’apertura del giornale: tra lo stupore, mise in copertina le olimpiadi. Oggi, a distanza di sei anni, riesco a decodificare quella scelta: il giornalismo è come lo sport, e quindi non si fa da seduti ma in piedi, di corsa, a cercare le notizie. Il giornalismo per Loris era esattamente questo. Sport. Preparazione, schemi, progetti, allenamenti, formazione, alimentazione. Con la differenza che le olimpiadi si tengono ogni quattro anni mentre il giornale va in stampa una volta la settimana. Insomma, una gara ogni sette giorni.

Anche Loris, come era capitato a me due anni prima, ha avuto bisogno di un periodo di traghettamento, di incubazione. San Marino Fixing è un prodotto molto particolare, diversissimo dal quotidiano. E chiede tempo. Nonostante fosse direttore, si è subito fidato delle competenze della redazione, specie dal punto di vista tecnologico. Ai tempi Fixing veniva impaginato con PageMaker. Si sedeva vicino a me e osservava, con umiltà e voglia di imparare.

Il passaggio a InDesign gli ha dato slancio e ha distribuito il carico di lavoro: sentivo dalla mia postazione il tic tic tic sulla tastiera. “Sono uno smanettone” mi diceva, sempre con il sorriso. Nonostante io avessi seguito il corso per imparare a utilizzare il programma di Adobe, lui in breve e in maniera autodidatta, arrivò a un livello piuttosto alto.

Loris, o Loris Loris – lo chiamavo così -, nonostante avesse quattro anni più di me, apparteneva alla generazione dei “tecnologicamente vecchi” giornalisti: i primi articoli, mi raccontava, li “buttava giù” con la macchina da scrivere e poi li inviava via fax alla redazione del Carlino.

Lo slancio e la passione che lo avevano portato a iniziare a collaborare con alcune testate giornalistiche oltre 20 anni fa gli erano rimasti intatti. E, da “quotidianista”, aveva tempi tutti suoi. Amava quella tensione che scorre nelle vene quando il giornale è sul punto di essere mandato in stampa, quella rincorsa contro l’ultima riga, l’ultima battuta, il titolo, mentre il “missile” (il giornale) aveva già acceso i motori per il decollo. “Chiuso il file” mi diceva dalla sua stanza. Io preparavo il pdf e lui usciva dalla porta, sereno e con un sorriso garbato, soddisfatto.

Loris era una persona d’altri tempi. Raffinato, educatissimo – mai una parolaccia – e soprattutto capace di amare. Amava la moglie Simona di un sentimento quasi Stilnovista, profondissimo. Erano due ali dello stesso angelo: per volare, si muovevano assieme. Vedendo Loris assieme a Simona, ho imparato che esistono ancora sentimenti davvero sinceri, unici. Si chiamavano spesso, si cercavano soprattutto. E vivevano ogni attimo assieme, ogni passione, ogni hobby. Passioni anche “bizzarre”, desuete. I vulcani, per esempio: quando eruttò la montagna dell’Islanda – isola che adorava – mi disse immediatamente il nome corretto. E il cielo, lo spazio, gli astri, gli aerei.

Loris e Simona erano sposati dal 2005 e non avevano figli. O meglio: ne avevano quattro: Gabriel, Giacomo, Giada a Greta. Sono i nomi dei ragazzi che Loris e Simona hanno accolto sei anni fa al corso di giornalismo a Rimini e che oggi sono quasi maggiorenni. Quando Loris parlava di loro, si illuminava. Voleva bene a tutti e quattro, e mi raccontava di come stavano crescendo, di come avevano raffinato la scrittura. Ogni tanto mi portava in anteprima la bozza del giornale che curava con loro: “Flying”. “Cosa ne pensi?” mi chiedeva. Era scritto proprio bene.

Loris sapeva insegnare. Un pregio raro, oggi. Lo ha fatto a “Flying” ma anche al corso di giornalismo che la redazione – ma soprattutto lui – ha tenuto con gli studenti del liceo economico aziendale di San Marino. E lo ha fatto anche con me: mi ha smussato, mi ha levigato. E, in maniera più ampia, ha reso più leggibile anche il settimanale che dirigeva: il “taglio” dei pezzi, l’utilizzo dei box e dei sommarietti per alleggerire la lettura, la grafica più accattivante.

Loris sapeva però anche essere un ottimo alunno. Amava molto la fotografia, e voleva entrare dentro la forza dell’immagine. Abbiamo parlato moltissimo di foto, del suo significato: “Scrivere con la luce”.

Le sue prime foto erano quasi tutte a 45 gradi. All’inizio l’avevo bonariamente ripreso – “Loris, le foto sono o verticali o orizzontali: devono essere fedeli al modo che abbiamo di vedere il mondo” – poi però ho capito che quel “taglio” era il suo marchio di fabbrica.

A inizio estate mi aveva avvicinato e mi aveva annunciato che si era aggiudicato il terzo premio a un concorso, il “Photo Contest”, con uno scatto del mare. Orizzontale, in bianco e nero, molto delicato. Lui che non amava mangiare il pesce ma che veniva da una famiglia di pescatori, lui che aveva portato in scena uno spettacolo teatrale, “E mer”, dedicato al viaggio e alla distesa d’acqua salata, lui che adorava “Moby dick” di Melville. Lo voglio immaginare nelle vesti del capitano Achab, con il suo berrettino di lana in testa, a ricercare – nella balena – le sue origini.

Che ti sia lieve anche il mare, Loris.

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