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Teatro: recensione dello spettacolo “King Arthur” diretto dai Motus

da Redazione

Ma è in un paio di accorgimenti che si decifra l’esplosione di bellezza e l’acume della regia della compagnia riminese.

 

di Alessandro Carli

 

RIMINI – Non è mai facile far dialogare due mondi apparentemente così distanti per età e stile – il teatro barocco e quello contemporaneo – ma quando l’alchimia riesce (come era capitato qualche anno fa all’immensa Emma Dante alla Scala di Milano con la “Carmen” di Bizet), è necessario togliersi il cappello e applaudire. Con “King Arthur”, andato in scena martedì e mercoledì scorsi  per il programma 2014 della “Sagra musicale malatestiana”, i Motus hanno trasformato il piombo in oro: all’interno del complesso degli Agostiniani – una perla di rara bellezza architettonica – la compagnia riminese ha lavorato sugli spazi, mantenendo comunque il proprio marchio di fabbrica, l’utilizzo della telecamera in presa diretta (con alcuni passaggi preregistrati), il taglio sul mondo dei giovani e quel gioco straordinariamente efficace dei doppi e degli specchi.

Il luogo dell’azione, che diventa, nell’accezione strettamente pirandelliana del termine, “Stanza della tortura”, è strutturato in due spazi: una sorta di proscenio in cui i musicisti suonano l’opera, e – dietro a un fondale immaginario, un volume “altro” (in realtà le due location sono collegate da una porta aperta): tutto lo scontro tra lotte terrene e il sovrannaturale – il plot dell’opera musicale – avviene qui. Qui gli strumenti, ordinatamente posizionati a ridosso delle quinte laterali, qui parte l’azione, quella di Silvia Calderoni (Emmeline) e Glen Caci (King Arthur), che entrano ed escono dalla storia del passato per darle un senso di contemporaneità. Il testo, che in realtà è un pretesto per dare una ventata di modernità a un’opera datata, è incentrato sull’amore che Arthur e Oswald provano per Emmeline. Per conquistare il cuore della ragazza, i due chiedono aiuto ad alcuni spettri dei rispettivi io: personeggi squisitamente scespiriani, come Merlino, Osmod, Philidel e Grimbald.

Fedeli al percorso intrapreso dai Motus da qualche anno, il Re ha tratti “zingareschi”: è tatuato, indossa una parrucca, ama e si tormenta. Ma è in un paio di accorgimenti che si decifra l’esplosione di bellezza e l’acume della regia della compagnia riminese: il muro sopra alla porta è impreziosito da un arco in mattoni che, nei giochi di luci e video, si trasforma in un particolare del ponte di Tiberio. Interessante, anche se meno evidente agli occhi del numeroso pubblico, la scritta che dà luce alla seconda stanza: “Amor vincit omnia”, altro richiamo alla città.

Questo “King Arthur” rinato come un’araba fenice dopo moltissimi anni (è della seconda metà del 1600), è uno spettacolo denso, bello: c’è molto, tanto, ma sempre con precisissimo senso dell’ordine.

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