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La Grande Guerra e i grandi scrittori

da Redazione

Il conflitto del ‘14-’18 ha portato alla stesura di veri capolavori. Antimilitaristi. La caducità di Ungaretti. Poi Remarque, Lussu e naturalmente Hemingway.

 

di Loris Pironi

 

Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie.

La guerra è foriera di brutalità e disumanizzazione. Ma per gli animi nobili è fonte d’ispirazione. È energia di vita. Perché se non si vive, se non si sopravvive alla guerra, non la si può raccontare. Non si può contribuire a evitare che il grande dramma collettivo si ripeta.

È questo che fanno i poeti. I letterati.

Sopravvivono alla guerra, quando ci riescono, e ci lasciano perle. Perle difficili da indossare, perle terribilmente scomode. Ma che contribuiscono a rendere il mondo migliore raccontandoci il mondo peggiore.

Grandi romanzi raccontano la guerra. Le guerre dell’antichità, da Omero in giù per intenderci. Le guerre napoleoniche, i due grandi conflitti mondiali del XX secolo. Il Vietnam. E se è vero che ogni volta l’uomo ci ricade, che a quanto pare c’è sempre un “buon motivo” per imbracciare le armi, lo sforzo del poeta, del narratore, non sarà vano. Perché instilla nelle nostre coscienze di lettori e anche in quelle dei non lettori un seme. Che generazione dopo generazione germoglierà.

Abbiamo aperto questa riflessione con una delle più celebri poesie dell’ermetismo italiano. Sembra una metafora della vita in generale. Invece s’intitola “Soldati”. Ed è la metafora invece della trincea come il ramo d’autunno dove stanno appollaiati i poveri fanti, affamati, impauriti, stretti gli uni agli altri per farsi coraggio sapendo che possono venire strappati dalla vita dal primo refolo di vento di passaggio. Possono andarsene così, in un batter d’occhi. Oppure possono scampare all’inesorabile, mentre chi ti è rimasto per mesi gomito a gomito se ne va senza il tempo di un lamento. Giuseppe Ungaretti la Grande Guerra l’ha combattuta. Da volontario. Interventista convinto. Nel mentre si è accorto della disumanità, della paura, degli strascichi di questa follia. Dalla guerra si può scampare, come un naufrago, ma poi non si è più come prima. “Soldati” è la dimostrazione tangibile di come un verso possa colpire molto più in profondità di una baionetta. La raccolta in cui queste nove sole parole raccontano la caducità della vita dell’uomo è stata pubblicata in appena 80 copie dopo la sua esperienza sul Carso. Ed è diventata un’opera immortale. Così come il suo “San Martino del Carso” (“…Nessuna croce manca / è il mio cuore / il paese più straziato”), o “Natale” (“Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade…”). Le sue sono poesie che trasudano umanità. Che hanno al centro l’uomo, il soldato, con le sue miserie. Che non giudicano, non condannano.

La letteratura di guerra, spesso invece giudica e condanna. La letteratura di guerra è in genere antimilitarista, anche in maniera feroce. Racconta la guerra in tutta la sua disumanità per distruggerla, a colpi di parole. Pur giocando sempre sulla lama affilata del coltello – senza moralismi il messaggio va sempre più in profondità – mira a lasciare un segno indelebile. Non è un caso che “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, di Erich Maria Remarque – che racconta la storia di un soldato tedesco durante la Prima Guerra Mondiale e dei suoi compagni di sventura – per i nazisti sia stato come il fumo negli occhi. Infatti fecero roghi pubblici delle copie del suo libro in cui si racconta di giovani vite, imbevute di ideali nazionalistici, spazzate via per la stupidità di superiori incompetenti, oppure solo per la cattiva sorte.

Gravido di satirica ironia (perché l’ironia e la satira sono armi terribili, le più efficaci se si debbono affrontare monolitiche istituzioni come l’esercito) è “Il buon soldato Sc’vèik” di Jaroslav Hašek. Un personaggio indimenticabile, nato prima del conflitto del 1914-18 ma che l’autore richiama ai doveri della divisa per partecipare alla guerra. Un richiamo forzato il suo, per il povero soldato Sc’vèik, ma che all’autore è stato indispensabile per poter mettere alla berlina la corruzione e la stupidità imperanti, in tutto un sistema – dall’imperatore austroungarico in giù, per intendersi – palesemente incapace di affrontare e gestire qualcosa di tanto grande e complesso come una guerra.

Altro testo imperdibile è quello dell’italiano Emilio Lussu, “Un anno sull’altipiano”, un’altra autobiografia, dove l’altipiano è quello di Asiago e la guerra è sempre la stessa. Tragica e terribilmente ottusa.

Non possiamo non chiudere questa rapida carrellata di opere dedicate o ispirata dalla Prima Guerra Mondiale che con “Addio alle armi” di Ernest Hemingway. Il romanzo in parte autobiografico, è ambientato in Italia ai tempi della disfatta di Caporetto. Una storia d’amore amaro che s’intreccia con la disillusione della guerra, ma che ci ricorda che anche nei momenti più terribili un sentimento più alto può renderci felici.

Per un altro giorno, almeno.

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