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Ode alla libertà perpetua del Titano

da Redazione

Ritempriamoci e traiamo nuovi stimoli dalla lettura dell’orazione ufficiale di Giosuè Carducci in occasione dell’inaugurazione del Palazzo Pubblico, nel 1894. Un “ripasso” della storia – e della gloria – sammarinese.

 

di Loris Pironi


“Sia fausto e glorioso ai figli e nepoti lontani come a noi è sacro e felice questo giorno nel quale apriamo alla solennità degli officii la sede nova della repubblica. Mentre genti e governi d’Europa ondeggiano in tempesta di pensieri, d’eventi, d’aspettazioni; mentre un sordo brontolio sotterraneo par minacciare le fondamenta stesse della civiltà…”.

Quanto pare profetico, riletto oggi, l’incipit dell’orazione di Giosuè Carducci al Popolo e al Senato della Repubblica di San Marino letta in occasione dell’inaugurazione del Palazzo Pubblico il 30 settembre del 1894, e pubblicata da Nicola Zanichelli a Bologna il 13 ottobre dello stesso anno. Pare profetico, con quell’ondeggiare europeo e con quel brontolio di sottofondo che ci accompagna anche oggi, ma la verità è che i tempi cambiano ma noi, popoli, nazioni, pare che non riusciamo affatto a progredire.

Scorrendo le pagine dell’Orazione di Carducci si ripercorrono il mito e la storia della Repubblica di San Marino, che oggi più che mai devono essere un riferimento dalla cui forza attingere, per ripartire.

La libertà è al centro dell’orazione carducciana, la “libertà perpetua” che è divenuta nel tempo un simbolo assoluto del Titano. Una libertà che nasce figurata già nell’aspetto, di “questo nostro monte in conspetto all’Emilia popolosa, alla portuosa Flaminia, al velivolo Adriatico levava le eccelse acute creste coronate di nubi e i massi portendenti ruina per le frane precipiti offeriva al riposo delle aquile e al volo dei pensieri che chiedessero libertà”. Che suggestioni, a cui attingere!.


Il Santo


Le radici cristiane della più antica Repubblica trovano – e non potrebbe essere diversamente – un terreno fertile laddove il mito fondante chiama a testimonianza un Santo, anzi due, Marino e Leo: “Forti lavoratori erano al modo nostro d’occidente, e non oziosi contemplatori nell’ignavia orientale, i due dalmati fedeli al legnaiolo di Nazareth”.

Di profonda fede cristiana dunque, e devoti al lavoro erano. Così li racconta il Carducci: “E approdati dalle coste della Dalmazia in lontananza cerulee ai lavori del porto e delle mura di Rimini, due cristiani dai nomi italici, Marino e Leo, quassù vennero, non sappiamo se cercando materiali al lavoro o fuggendo ira di persecutori. Vennero; e tra il fatidico stormire delle foreste antichissime intatte e il pianto delle acque irrompenti, tra i bràmiti delle belve disturbate dai covili e lo scroscio delle procelle battenti le vette, quassù trovarono le due nobilissime soddisfazioni della vita umana, dignità di lavoro e libertà di credenza”.

La dignità di lavoro, e il concetto di libertà che ancora ritorna. E poi c’è la leggenda, che ripesca dal mito – quasi nordico in questo caso – l’immagine dei due titani che da monte a monte si scagliano gli attrezzi: un’immagine suggestiva e per certi versi anche divertente, quasi ironica, che si trova riprodotta sul bassorilievo che oggi fa bella mostra di sé nella rotondina di fronte all’ingresso del parcheggio del Kursaal (la potete vedere nella foto al centro): “E la leggenda rinnovando il mito natural dei titani, mostrava i due grandi santi a gittarsi da monte a monte, scambiando, i ferri del mestiere. Leone fu vescovo, e da lui la feudal signoria della diocesi feretrana. Marino fu diacono, e da lui questo Titano ripete il diritto della libertà popolare”. Ma il mito continua, e il sacello del Santo diventa un punto di riferimento per le genti vicine. “Il pio e forte uomo lavoravasi tra i sassi aridi un orto, si scavò un letto nella pietra, murò nella solitaria vetta un sacello. Al sacello miravano pescatori e barcaioli quando nei pericoli del gonfio e nero Adria osavano mostrare su le povere vele una forma di croce, miravano i condannati al lavoro delle pietre perché non vollero sacrificare su l’ara di Cesare; e insieme con quei miseri altri miseri ascesero e intorno al sacello si accolsero, agricoltori e pastori a cui la terra esausta e il pubblicano spietato contendevano e stremavano il vitto ed il gregge. Dio volle dimostrare la sua potenza nell’uom suo Marino, quando i superbi venuti a cacciare gli umili restarono immobili e inabilitati a più offendere: ma Felicissima, per la sanità resa ai figlioli e per la nuova santa credenza persuasale, Felicissima, madre e patrona, fece a Marino libero dono del Monte in possedimento perpetuo”.


I due fuochi


Le supreme parole “Relinquo vos liberos ab utroque homine” (Liberi io vi lascio dall’un uomo e dall’altro), sostiene Carducci, “non le poté Marino aver pronunziate: troppo era aliena l’idea barbarica del doppio feudalismo nell’impero e nella chiesa dal concetto della romanità pur cristiana del secolo quarto: ma verissime elle sonavano nel decimo o undecimo quando al santo moriente le diede lo scrittore quale si fosse della sua vita e degli atti”. E la Repubblica di San Marino si destreggiò abilmente tra i due fuochi, “libera dall’uno e l’altr’uomo: dall’imperatore e dal papa, dal conte e dal vescovo. Sola tra le italiane ella divenne a stato di repubblica, non per privilegio di Cesare o di Pietro”.

E la celebre formula del-l’“Eguaglianza di tutti in faccia alla legge”, evidenzia il Carducci, “qui venne fuori per emanazione spontanea da volontà sincera d’uomini semplici: l’eguaglianza, cioè, fu natural conseguenza del libero assembrarsi tutti i capifamiglia nell’aringo, il quale, cresciute poi le famiglie nelle nuove generazioni e per le nuove aggregazioni, delegò la sovranità a un Consiglio tuttora rinnovantesi per elezione”.

E quindi il Carducci cita “il poeta dell’Italia liberata”, ovvero l’umanista vicentino Gian Giorgio Trissino, che nel Cinquecento così salutava “San Marino / Che di perpetua libertà si gode”.


I tempi cupi


“Nella miseria e abiezione d’Italia, che fu massima al secolo decimosettimo, San Marino, riparandosi nell’oscurità, seppe vivere”. Ma ahinoi!, “la servitú e la tirannia accovacciate al basso (sul suolo italico) gittarono una zaffata di lor corruzione anche quassú; e co ‘l languire dell’amor patrio e il crescere dell’inerzia parve sormontare all’eguaglianza civile la superbia e il reggimento restringersi più sempre alle mani di pochi. Allora la lupa vaticana levò il muso e fiutò. Era la sua ora”.

Era l’ora del Cardinale Giulio Alberoni, l’ambizioso, che da Ravenna mosse contro San Marino.

“Erano le dieci del mattino, e il sole d’autunno placido ma solenne testimone splendea nella pieve tra i doppieri dell’altar maggiore su l’argenteo busto del santo: quando il cardinal Alberoni in mezzo un corteggio di gentiluomini esteri e di ribelli della repubblica, con grande sfarzo di livree e di musiche, scortato da una compagnia di corazzieri, seguito da squadre di birri, entrò nella chiesa. Celebrava la messa solenne monsignor vescovo di Montefeltro, quasi recando la soddisfazione della vecchia feudalità ecclesiastica al consumarsi della pontificia usurpazione. Il cardinale prese posto a destra dell’altare, ricoprendo superbamente degli ostri romani distesi il povero trono della reggenza repubblicana. In chiesa lo accerchiarono intorno intorno i corazzieri: di fuori erano attelate le milizie di Rimini, e guardavan la porta i birri con il bargello alla fronte e il carnefice in coda”.

Ma anche l’Alberoni fu vinto, e “la repubblica strinse al cuore le virtú di prima”.


Garibaldi


I tempi si fanno recenti, e l’eloquenza di Giosuè Carducci non può tacer dell’eroe dei due mondi. Giuseppe Garibaldi s’affaccia sul finire dell’orazione, e il poeta celebra “questa repubblica piccola di San Marino raccolse con Giuseppe Garibaldi gli sforzi supremi della italica virtù combattente”.

Così racconta il Carducci: “Qui venne l’eroe: l’avea preceduto Francesco Nullo il cavaliere prode dei prodi e Ugo Bassi il monaco martire. Era l’Italia antica e la nova, che battevano alla tua porta, o repubblica buona. – Due eserciti m’inseguono e stringono – disse l’eroe. – Le mie genti sono sfinite dalla fame e dalla fatica. Datemi pane e un po’ di riposo per loro. Qui deporremo le armi, e qui cesserà la guerra dell’indipendenza italiana. – E voi e i vostri padri, in conspetto del nemico incalzante da presso, deste pane e riposo e pietà agli afflitti e battuti fratelli, deste ai profughi il viatico e agevolaste la via; e l’ombra della repubblica protesse l’eroe che affrontava i fati novi d’Italia”.

Per queste gesta e per tutta questa virtù che ha fatto nei secoli del Titano un minuscolo, ma solo per le dimensioni, faro di democrazia per i popoli d’occidente, il Carducci conclude con un’ode imperitura: “Onore a te, o antica repubblica, virtuosa, generosa, fidente! onore a te! e vivi eterna con la vita e la gloria d’Italia!”.

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