Il vortice di parole, reiterate per riempire il vuoto di comunicazione, si sublimano nella prova dell’attrice, che dona alla platea una donna clown: dietro ai sorrisi e alle vocette, spesso si cela la maschera della sofferenza.
di Alessandro Carli
Testo indagato sempre con grande parsimonia da grandi attori – celebre è la regia di Giorgio Strehler del 1982, quando diresse Giulia Lazzarini e Franco Sangermano e da applausi fu anche l’interpretazione di Anna Marchesini circa un lustro fa -, lo spigoloso “Giorni felici” di Samuel Beckett è tornato in scena al teatro Bonci di Cesena: Nicoletta Braschi difatti si è misurata, con ottimi risultati, nell’impegnativo monologo scritto dal drammaturgo irlandese.
Scenografia essenziale e minimalista – la prigione della protagonista, sintetizzata in un mucchietto di sacchi a mo’ di collinetta e poco più in là un paravento dipinto -, resa cristallizzata da un quadro di luci ferme, e un campanello fuori scena, che scandisce le “entrate” delle battute: per 90 minuti la partita (che non è mai una “finale) si gioca dalla panchina: movimenti ridotti all’osso (l’unico a potersi spostare è Willie, interpretato da Roberto De Francesco), e un flusso di parole che, nella tonalità vocale dell’attrice cesenate, trovano uno slancio fresco, credibile, di grande intensità.
Sul palco, chiaramente, non accade nulla: Winnie, la donna sotterrata sino alla cintola, prova a dialogare con il marito, che risponde quasi a monosillabi: una coppia di reietti, una fotografia nitida e tagliente di un mondo borghese – deliziosa l’attenzione con cui la Braschi cura il proprio corpo, che di fatto è un non-corpo – che blatera senza sapersi ascoltare.
Il vortice di parole, reiterate per riempire il vuoto di comunicazione, si sublimano nella prova dell’attrice, che dona alla platea una donna clown: dietro ai sorrisi e alle vocette, spesso si cela la maschera della sofferenza.