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Ludovico Einaudi, quando la musica incontra la fotografia

da Redazione

“E’ sicuramente nelle mie intenzioni cercare di scoprire sempre cose nuove. ‘In a time lapse’ i suoni sanno essere eterei ma anche possedere la forza del fuoco. Abbiamo lavorato su un range di sfumature dinamiche”.


di Alessandro Carli

 

Musica, Maestro. E di certo la musica del cuore, Ludovico Einaudi, la sa creare. Il compositore e direttore artistico del Festival di Verucchio ha presentato “In a time lapse”, un quadro di echi di musica barocca e pulsazioni di pizzica salentina, di percussioni e elementi di elettronica, sempre guidati dalla bussola del suo pianoforte.

Nella filigrana dei pezzi, fiorisce la percezione di una nascita, di una nuova vita. “In a time lapse” è legato ai due album precedenti: è il nipote di “Divenire”, è il figlio di “Nightbook”, ma possiede, in nuce, un dna più giovane. Giovani sono le percussioni salentine, giovanissimi sono gli arrangiamenti e i violini di Federico Mecozzi, il giovane verucchiese che ha qualche tempo lavora con il Maestro, e musica, e gira il mondo in prima classe. Un’osmosi – quella tra Einaudi e i suoi musicisti – che ha messo al mondo un album in cui la materia musicale è utilizzata con più parsimonia, la trama è meno appariscente, i volumi più calibrati. Ma ad ogni nuovo ascolto il disegno appare sempre più chiaro sino ad emanare tutto il suo splendore: tracce come “Time Lapse”, “Life” o “Experience” (soprattutto “Experience”, che inizia con il parto lento ed esplode in un grido ritmato, una richiesta di vita) sono capolavori cristallini. “In a Time Lapse” è l’attimo cui ragione e sentimenti si baciano: è la parola dell’Angelo sussurrata fra le quinte del Tempo. Ludovico Einaudi mette al mondo musica, e non usa mai le parole: il verbo si sublima nelle note. Ascoltare la sua voce diventa quindi un momento di raccoglimento.

 

“In a time lapse” si avverte un respiro di vita nuova.


“Siamo arrivati a Verucchio dopo circa 80 repliche: l’effetto del concerto oggi è più compatto. Si è raffinato, anche più maturo. E’ sicuramente nelle mie intenzioni cercare di scoprire sempre cose nuove. ‘In a time lapse’ i suoni sanno essere eterei ma anche possedere la forza del fuoco. Abbiamo lavorato su un range di sfumature dinamiche”.

 

Come mai i titoli dei brani sono in inglese?


“Sono partito investigando diverse possibilità. Leggendo un libro in inglese ho incontrato molte suggestioni. Il disco è uscito in scala mondiale a gennaio, e mi è sembrato che questa scelta potesse andare bene per la comprensione dei titoli”.

 

L’arte è anche scambio. Cosa dà e cosa riceve dai ragazzi che lavorano con lei?


“Lo scambio avviene all’interno del progetto musicale, ma anche sotto il profilo umano. Molte suggestioni e molti suoni nascono durante il soundcheck. Federico Mecozzi magari prova per gioco un passaggio, un modo di accompagnare che prima non era presente. Un arpeggio, un’aria. Siamo una grande famiglia, e la musica è la traccia di una mappa che una persona vive. Sul palco di Verucchio è salita anche Caterina Boldrini: mi piace il suo tocco, il suo modo di interpretare la musica”.    

 

Che differenza c’è tra suonare in teatro e un concerto alla luce delle stelle?


“Alla luce delle stelle arrivano suggestioni particolari, fatte di paesaggi, notte, luminosità. A volte però, specie in estate, l’umidità scorda i violini e i musicisti li devono riaccordare continuamente. A teatro ci sono meno suggestioni, ma gli strumenti stanno meglio”.

 

Nel pezzo “The tower”, nell’album “Nightbook”, sembra di vedere la torre di Verucchio.


“La torre della Rocca malatestiana di Verucchio, quando si arriva in cima sa dare, come le grandi torri, quel senso di vertigine che si ha davanti al vuoto”.

 

La rivedremo ancora il prossimo anno nelle vesti di direttore artistico?


“Penso di sì. Anche se mi piacerebbe essere fisicamente più presente, ma è sempre più difficile. Se riuscirò a creare un cartellone e controllare che funzioni, lo farò ancora, magari esplorando altre strade”.

 

Come vive oggi i tour?


“Una volta ne facevo meno ed erano più faticosi, anche se ero più giovane. Mi stancavo di più. Oggi, nonostante sia più grande e ne faccia di più, sono meno stanco. Mi sono abituato a viaggiare, e non mi pesa”.

 

L’edizione 2013 del Festival è stata caratterizzata da un cartellone in parte diverso rispetto al passato: Alessandro Mannarino, Bobo Rondelli, eccetera. Come ha scelto gli artisti?


“Quest’anno ha dato più attenzione ai progetti di ricerca italiani. In passato invece avevo rivolto lo sguardo all’estero. Mi sembrava interessante proporre, esplorare alcune sonorità che avessero senso per me. Siamo riusciti a portare, il giorno dell’apertura, Agnes Obel – che avevo inseguito anche in passato – e Thony, che avevo conosciuto brevemente lo scorso anno a Roma, e che avevo trovato interessante”.

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