Home FixingFixing San Marino, referendum: chi crede davvero che così salva lo stipendio?

San Marino, referendum: chi crede davvero che così salva lo stipendio?

da Redazione

I QUESITI – 1 / Lanciato dalla Cdls, “sconfessato” da tutto il resto del sindacato. Il rischio: porre le imprese fuori mercato. E dare il là a nuove tasse.

 

Al traino del quesito sull’Europa, in questo fine settimana i cittadini sammarinesi sono chiamati a pronunciarsi su una seconda questione, decisamente più tecnica e meno comprensibile, soprattutto nelle sue potenziali conseguenze.

Il quesito, proposto da una – e una sola – delle tre sigle sindacali, chiede di pronunciarsi circa la possibilità di legare, in fase di vacanza contrattuale (quando cioè i contratti collettivi di lavoro sono scaduti, in attesa del rinnovo successivo) gli aumenti retributivi all’inflazione. In pratica, per “salvare i salari”, propone di introdurre l’obbligo per il datore di lavoro, sia esso lo Stato, sia una qualsiasi azienda privata, a assicurare aumenti a prescindere dalle reali condizioni dell’economia.

La materia è tecnica ma nello stesso tempo presta il fianco a facili populismi. Chi, tra i lavoratori, può resistere alla tentazione di veder entrare qualche euro in più nelle proprie tasche? Ai cittadini del resto non può essere richiesta la lungimiranza che invece dovrebbe essere propria della politica e delle parti sociali.

Se si innesca un meccanismo in cui l’aumento del costo del lavoro diventa una variabile indipendente dal contesto (che purtroppo è e rimane un contesto di crisi), inevitabilmente si pongono le aziende sammarinesi in una posizione svantaggiata sui mercati. E questo in una fase in cui il sistema è così fragile da aver già perso ben più di mille posti di lavoro, con le riduzioni di personale e la cassa integrazione che rappresentano la drammatica quotidianità di chi fa impresa.

Il referendum, poi, ha un impatto notevole sulle parti sociali – sindacati e associazioni di categoria – che sono quelle che storicamente trattano e sottoscrivono i contratti collettivi di lavoro.

Gli aspetti legati alle retribuzioni rappresentano una delle chiavi principali per condurre in porto buone trattative, vantaggiose per le imprese, per i lavoratori e per il sistema. Se uno dei due pilastri, ovvero la parte retributiva, viene a meno, come si può sperare di ritrovare quell’equilibrio indispensabile per giungere a contratti davvero efficaci?


Tranne la Cdls sono tutti per il “no”

 

Analizzare le differenti posizioni in merito al quesito referendario è spesso utile per farsi un’idea della situazione. In questo caso specifico, poi, gli schieramenti sono posizionati in maniera così singolare che l’interpretazione è quasi scontata. Da una parte c’è la Cdls, che ha promosso il referendum, lanciato peraltro in una fase ben particolare, nel pieno delle trattative per il rinnovo del contratto industria, nel 2012, quando la situazione nelle relazioni con Anis era decisamente in bilico. Dalla parte opposta ci sono praticamente tutti gli altri: le organizzazioni datoriali (Anis, Unas, Osla, Usot, Usc, Abs…), più il sindacato Usl, che ha spiegato come per difendere il potere d’acquisto delle retribuzioni ci sono ben altri modi. In mezzo, nel senso che in queste settimane non si è mai pronunciata pubblicamente per il “no”, ma con il “cuore” ha preso le distanze da questo referendum, c’è la Csdl, lo storico partner della Confederazione Democratica nella Centrale Sindacale Unitaria. Ma se la Csdl ha appunto optato per lasciare “libertà di coscienza” ai propri tesserati, ma fa clamore la presa di posizione pubblica, nei giorni scorsi, di Enzo Merlini, segretario della Federazione Industria della Csdl, che di fatto ha sconfessato su più fronti la posizione del Segretario Confederale Marco Tura e di tutta la Cdls in questa campagna referendaria. Merlini, che peraltro nella sua lettera aperta non ha risparmiato frecciate alla “controparte” degli industriali, ha evidenziato le incongruità nella posizione dell’altro sindacato. Sbugiardando letteralmente la Confederazione Democratica quando questa ha parlato di 90 ore di sciopero per il rinnovo (“Cosa centrano gli scioperi del 2005, che peraltro non erano stati fatti per i soldi”) e di una perdita secca del 4,5% (“non si capisce da dove è venuto fuori questo dato”). Merlini ha inoltre dato una sua lettura dell’impatto dello “spauracchio referendum”, che nella fase cruciale della trattativa non solo non ne ha facilitato la chiusura, ma al contrario ha rischiato di far saltare il banco.

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