Aveva attraversato l’oceano per suo figlio, una volta tanto qualcuno che apparteneva al presente e non al passato.
di Serafina Bruschi
Quindi esisteva veramente il Long Island di Fitzgerald. Attraversando la lingua ricoperta di verde si potevano ancora vedere “le grandi esplosioni di foglie che crescevano sugli alberi”, pensò Serafina.
Aveva attraversato l’oceano per suo figlio, una volta tanto qualcuno che apparteneva al presente e non al passato.
Luca stava frequentando un corso d’inglese in un college di Long Island. Gli avrebbe mostrato il mondo dal quale lei proveniva e scoperto insieme a lui cosa ne rimaneva.
Erano partiti alle sette del mattino per andare prenderlo: Serafina, sua cugina Anna e Kevin, il compagno di lei. Anna aveva preparato loro una sorpresa. “Dobbiamo tornare presto” aveva detto, “altrimenti non riusciremo più a entrare in centro”.
Quando riconobbe Luca in mezzo al gruppetto di adolescenti, a Serafina mancò il fiato. I loro sguardi si incrociarono e lui le sorrise da lontano, in modo nuovo, alzando le arcate delle sopracciglia. Salutò con calma i compagni, tutti lì per dargli l’addio, un ammasso di corpi e braccia che sembravano separarsi a fatica.
Appena furono in vista di Manhattan, Serafina iniziò a guardare fuori dal finestrino in alto, a destra, a sinistra. Poi girava su se stessa e ricominciava. Fu travolta dalla vertigine delle proporzioni e da una scarica di adrenalina che a stento riusciva a controllare. Gli altri mostravano indifferenza, ma lei era convinta che New York faceva quell’effetto a tutti, persino ai newyorchesi.
Parcheggiarono a Washington Square Park, si misero in cammino e dopo un chilometro circa si accorsero che le auto si stavano diradando finché non sparirono del tutto. “Ladies and gentlemen” disse Anna, “benvenuti al Summer Streets Festival”. Skaters, pedoni, pattinatori, joggers e ciclisti avevano invaso tutte e sei le corsie, in entrambe le direzioni di marcia.
Inizialmente Serafina non riusciva a scendere dai marciapiedi, talmente forte era la sensazione che sarebbe stata investita da un taxi o dalle auto che di solito sfrecciavano sull’asfalto. Ma poi si lasciò trasportare in mezzo alla strada dalla fiumana di gente e poco alla volta smise di guardarsi alle spalle.
Il cielo era d’un azzurro intenso e tutto brillava di calore. Erano state allestite zone di sosta con fontanelle e chioschi che distribuivano barrette energetiche. Stavano risalendo Park Avenue South. C’erano famiglie intere, giovani che sfoggiavano fisici atletici, giocolieri e mimi, ambientalisti e agenti in uniforme.
Lei e Luca avevano già sperimentato la sensazione di camminare a N.Y. in mezzo alla strada, ma in notturna, per il capodanno del millennio. Allora Luca era rimasto quasi sempre a cavalcioni sulle spalle di suo padre, indossando un copricapo in gommapiuma che riproduceva la corona della statua della libertà e gli occhiali a stelle e strisce a forma di 2000.
Anna voleva che vedessero un punto della città normalmente interdetto ai pedoni. Park Avenue è interrotta dal Grand Central Terminal e dal retrostante palazzo del MetLife.
Quel giorno era possibile percorrere a piedi il viadotto che circonda il Terminal e attraversare il MetLife tramite il tunnel che sbuca dall’altra parte, dove prosegue Park Avenue.
Si fermarono per scattare delle foto. Come era possibile che gli enormi automezzi americani svoltassero a novanta gradi zigzagando fra le costruzioni? Kevin, in effetti, mostrò loro una parte del massiccio parapetto in pietra distrutto recentemente da un camion durante una manovra.
Imboccarono il tunnel. Man mano che si avanzava sembrava di essere inghiottiti dal buio e il rumore dei passi veniva amplificato dall’eco. Le pareti umide trasudavano le esalazioni dei gas di scarico di cui erano impregnate e provocavano brividi di freddo. Ci si poteva aspettare che uno dei gargoyle, magari a forma di drago, si staccasse dal Chrysler Building poco distante e sbucasse da un anfratto oscuro planando sulle loro teste.
L’arco finale si apriva come un enorme sipario sulla luce abbagliante della via, dove avevano sistemato opere d’arte di grandi dimensioni con colori sfolgoranti.
Dentro uno spartitraffico, una serie di ballerine obese, in punta di piedi, con tutù ricoperti da lucidi tasselli, erano state immortalate nel vorticare di una piroetta. Un ratto d’acciaio alto due piani spuntava in fondo a un cortile.
Ritornarono al Grand Central, Serafina non c’era mai stata. Attraversarono le imponenti sale affollate e i lunghi corridoi di vetrine luccicanti. Prima di scendere la scala che conduceva alle zone ristoro, con i decori originali del primo novecento, passarono davanti alla parete di marmo di una sala d’attesa che riportava una grande scritta.
“Guarda”, disse Serafina.
“The Biltmore Hotel” lesse Luca. “Non era l’albergo del nonno?”
A Serafina tornarono in mente le foto che lo ritraevano tutto vestito di bianco con il cappello da chef, un fungo rovesciato che sembrava dotato di poteri misteriosi. Una volta indossato, quel cappello trasformava il padre nel mitico personaggio capace di tramutare semplici vivande in maschere di capi indiani o in composizioni geometriche provviste di sinuose ali di cigno.
Serafina avrebbe voluto trattenersi più a lungo, ma Luca voleva tornare in superficie. Stava cercando un paio di scarpe da ginnastica che in Italia non si trovavano e sapeva che da quelle parti c’era Modell’s.
Ci andarono, scelsero tra un’infinità di modelli e alla fine Luca tornò in strada calzando le sue nuove Flex, con un fondo in schiuma leggerissima, morbide come un guanto e altamente ammortizzate. Lasciò il suo vecchio paio nel bidone all’uscita, tanto era ridotto male. Serafina lo guardò depositarsi sul fondo del cesto di metallo. Suo padre era arrivato nella terra promessa a sedici anni e le sue scarpe erano di un cuoio pesante, di seconda mano e di due misure più grandi.
Anna si era fermata dagli ambulanti e aveva preso in mano un calendario, mentre Serafina si mise a curiosare fra le cartoline. Le passò in rassegna, riconoscendo ogni angolo della città, fin quando non le capitò sotto gli occhi una vecchia cartolina disegnata con i colori a pastello che raffigurava un palazzo a forma di U. In alto c’era scritto The Biltmore New York – 43rd St. & Madison Avenue, e in basso a destra si vedeva il Grand Central Terminal.
Serafina si guardò intorno. Senza saperlo avevano appena percorso lo stesso tragitto che suo padre faceva ogni giorno per andare al lavoro. Comperò la cartolina, la mostrò agli altri e Kevin si mise a interrogare l’ambulante.
Venne fuori che il Biltmore era stato demolito nel 1981. Si trattava dell’hotel costruito insieme al Grand Central Terminal perché diventasse la città nella città, disse l’ambulante.
Gli uomini d’affari arrivavano da Chicago in treno e prima di proseguire per Wall Street, attraverso un ascensore interno salivano direttamente nella lobby del lussuoso Hotel, uno dei primi ad avere una piscina interna.
Al ventiduesimo piano c’era la grande sala da ballo dove ogni sera suonava un’orchestra dal vivo. Era ricoperta da un soffitto scorrevole che permetteva agli ospiti di osservare le stelle. Al Biltmore, disse l’ambulante, sono ambientati racconti di Salinger e di Fitzgerald, che vi soggiornò a lungo durante il suo viaggio di nozze. Tutte queste cose Serafina non le sapeva, e forse neanche il padre. Lui le aveva raccontato di quel mondo da un’altra prospettiva.
Era entrato nel labirinto delle cucine quand’era ancora un ragazzino che conosceva a malapena qualche parola d’inglese. Sguattero tra gli sguatteri pelò patate e trasportò pesanti secchi di rifiuti. Si irrobustì velocemente perché il tempo della fame era finito. Il suo sorriso piaceva ai capoccia che gli davano sempre nuovi compiti da sbrigare, lui non si tirava mai indietro e aveva gli occhi di chi vuole imparare. Preparavano centinaia di uova strapazzate ogni mattina. Tutto doveva arrivare in tavola caldo. C’erano filoni e filoni di crosta di pane in cassetta da ritagliare e ogni piatto veniva controllato prima di caricare i grandi vassoi suoi carrelli portavivande. L’enormità delle proporzioni, tutta quella grandiosità che il padre aveva visto, da piccola le riusciva incomprensibile.
“Te l’ho mai raccontato come ha fatto il nonno a guadagnarsi il cappello da chef?”
“Fammi pensare”, disse Luca. “Almeno un centinaio di volte”.
Serafina ci restò male, e forse lui se ne accorse perché dopo un po’ disse: “Ok, ma è pur sempre una bella storia. E poi qui ci sta bene. Avanti”.
Serafina sorrise. “Una sera il suo capo gli chiese di preparare il pesce per un servizio in camera. Il nonno non sapeva da dove cominciare, ma partì subito in quarta: farina, sale, pepe, burro alle erbe e vino. Ci fu una gran fiammata e quasi bruciava tutto. Ogni tanto aggiungeva qualcosa che vedeva lì in giro. Decorò il piatto con un po’ di prezzemolo e una foglia d’insalata, e via”.
“Ed era buono?”
“Evidentemente sì.”
“Una città nella città” disse Luca, riprendendo le parole dell’ambulante.
“Sai, quando siamo tornati in Italia abbiamo preso il transatlantico. Si chiamava
Raffaello e anche quello era una città nella città.”
“Quanti anni avevi.”
“Dieci. C’erano salotti con poltrone imbottite, sale da pranzo, bar dove non era necessario pagare, negozi, chiese, sale da gioco, piscine. C’era perfino una sala di registrazione per le trasmissioni televisive. Sono stata dappertutto, anche in prima classe, sui ponti con le scialuppe di salvataggio, nella sala comando e nelle cucine. Passavo ore sdraiata al sole, ho visto nuotare i delfini. A volte camminavo fino a poppa e me ne stavo lì, era il mio posto preferito”.
“Come quelli di Titanic.”
“Tranne che poi il Raffaello non è affondato.”
“Già” disse Luca. “E che facevi a poppa? A cosa pensavi?”
“Guardavo la scia della nave. Me la ricordo ancora. Era bianca, spumeggiante, e si allargava così, come quando si allargano le braccia”.
Serafina, nel dirlo, aveva effettivamente spalancato le braccia. Luca fece lo stesso. Andò a finire che si abbracciarono lì, in mezzo alla strada, a Manhattan, e rimasero stretti per un bel pezzo, tra gli sketers, i joggers e i bikers.