Giuditta era la figlia della cuoca di Canelli. Non si sa chi fosse suo padre. Quando era nata, la cuoca aveva già passato la trentina e nel villaggio c’era stato un certo scompiglio, tanto che tutti si aspettavano che la madre di Canelli, la Signora Anna Paola, la avrebbe licenziata.
di Francesca Mairani
Giuditta era la figlia della cuoca di Canelli. Non si sa chi fosse suo padre. Quando era nata, la cuoca aveva già passato la trentina e nel villaggio c’era stato un certo scompiglio, tanto che tutti si aspettavano che la madre di Canelli, la Signora Anna Paola, la avrebbe licenziata. Invece decise di tenerla a servizio e le permise anche di allevare la bambina. A chi gliene chiedeva ragione, disse che c’erano abbastanza bastardi nel villaggio e che crescere in una famiglia di sani principi ne avrebbe fatto una buona cristiana.
Ma qualcosa non funzionò nei programmi. Giuditta crebbe poco timorata sia di dio che delle botte della madre. La prima volta che scappò di casa aveva quattordici anni e arrivò fino alle cascine di S. Giovanni. Dormì tre notti con il garzone, prima che da casa Canelli tornassero a prenderla.
La madre la picchiò con lo scudiscio, lasciandole delle strisce viola lungo tutta le schiena. Lei rimase a letto per due giorni, con la febbre alta. Quando si levò chiese del pane e del latte e poi prese la via dei campi. Al suo ritorno, a tarda sera, aveva una spiga di grano fra i capelli e profumava d’erba e di papaveri.
Così crebbe Giuditta, libera, concedendosi a chi la piaceva. A casa Canelli le trovarono un compito, perché là nessuno poteva restare inoperoso. Le affidarono Carlotta, una somarella grigia. Giuditta la accudiva con devozione: la strigliava, le dava fieno fresco e acqua pulita e le grattava la criniera dietro le orecchie.
Canelli la vide diventare donna nella sua casa. Aveva quindici anni più di lei e quando le crebbe il seno era già un agiato possidente, con vigne, orti, campi di grano. Di robusti appetiti, non era però uomo da perdersi con le serve. Durante il fine settimana prendeva il calessino e scendeva in città, e al villaggio si favoleggiava di certe sue frequentazioni al Casino di Madame Gaia. Difficile dire se si trattasse della verità o di una diceria.
Certo è che Canelli non dava mai confidenza a nessuno. Con i braccianti era severo ma corretto. Aveva un paio di aiutanti fidati, che lo seguivano come cani ovunque andasse. Ma anche con loro i rapporti si limitavano al lavoro. Era raro vederlo sorridere e ancora più raro che questo accadesse per merito di un cristiano. A Canelli interessavano la sua terra e i suoi animali più di ogni altra cosa e non tanto – o non solo – perché da essi derivavano le sue ricchezze. Erano la sua famiglia. A volte, la sera, terminata la cena, usciva in giardino e si sedeva accanto al salice piangente. In silenzio guardava intorno a sé, il cielo in alto, i campi tutto intorno. Nessuno osava disturbarlo, in quei momenti. “Il padrone guarda la notte” dicevano le serve, con un tono come a dire che anche la notte gli apparteneva.
Così meravigliò tutti quando, una sera, mentre se ne stava sulla sua sedia sotto le stelle, Giuditta gli si avvicinò e si sedette ai suoi piedi. Era caldo e lei aveva i piedi scalzi. Gli si accucciò accanto e lui le accarezzò il viso, come avrebbe fatto con un bambino. Poi, senza dire una parola, lui si alzò in piedi e lei lo seguì. Lo seguì fino in casa, fino alla sua camera da letto. E da quel momento non fu più solo Giuditta. Divenne, per tutti la “Giuditta di Canelli”.
Aveva venticinque anni, era bella come un mezzogiorno sul fiume, forte come una cavalla, e chiunque la conoscesse avrebbe dato il braccio destro per averla tutta per sé.
Ma a nessuno concesse mai questo privilegio. Neppure a Canelli, che pure era il padrone della casa in cui viveva e del letto dove giaceva ogni notte. Avrebbe potuto fare la signora, impartire ordini, farsi servire. La Signora Anna Paola era morta da un pezzo, Canelli non aveva preso moglie, non c’erano altre donne in casa a cui dovesse rendere conto. Ma a lei comandare non interessava. Ogni mattina scendeva nella stalla di buon ora a occuparsi di Carlotta. La strigliava, la nutriva, le raccontava dei suoi giorni e anche delle sue notti. Canelli provò più volte a dissuaderla, a dirle che della somara potevano occuparsi i garzoni. Ma Giuditta non era donna a cui si poteva dire cosa dovesse fare. Testarda come la sua asina e come lei pronta a menare calci a chi osasse contraddirla.
Canelli sapeva che non era l’unico a cui concedeva le sue grazie. Sapeva che ogni tanto c’era qualcuno a cui faceva il regalo della sua pelle abbronzata, dei suoi capelli, del suo alito caldo. Lei era libera come una gatta randagia e non sarebbe cambiata per nessuno, nemmeno per lui. Ma gli voleva bene, a modo suo. Ed era sempre nella sua casa, nella sua stanza, che alla fine faceva ritorno.
Una mattina Giuditta si svegliò con una strana stanchezza, come se non avesse dormito ma fosse andata per campi tutta la notte. Non riuscì a mangiare nulla anzi, quando si costrinse ad addentare un boccone di pane per poco non lo vomitò direttamente nel piatto. Passarono giorni di spossatezza e languore poi, quando il seno iniziò a ingrossarsi e farle male, capì cosa le stesse succedendo. Ma non avrebbe potuto giurare sulla tomba di sua madre che il padre fosse proprio Canelli.
Canelli accolse la notizia da quell’uomo silenzioso che era. Si chiuse in casa e per tre giorni non mangiò e non parlò con nessuno. I braccianti raccontarono che all’inizio non si udì un solo suono: sembrava che si fosse seppellito con i suoi pensieri. Poi, il terzo giorno, un assordante battere di colpi venne udito dalla rimessa degli attrezzi. Nessuno ebbe il coraggio di entrare, neppure Giuditta. Canelli aveva delle mani che avrebbero potuto strangolare un toro e come ogni uomo veramente buono, la sua furia non conosceva limiti. Chi si sarebbe azzardato ad interromperlo, qualsiasi cosa stesse facendo?
Il terzo giorno i rumori cessarono. Canelli uscì, prese Giuditta per le spalle, la strinse forte, e la portò a vedere l’oggetto di tutto quel lavoro.
La più bella culla che si fosse mai vista nel villaggio. Di legno di noce, accuratamente levigata e smussata in ogni angolo e con un delicato motivo di fiori intagliato lungo i lati.
Giuditta non disse nulla, ma fu chiaro a tutti che il bambino sarebbe cresciuto nella casa di Canelli, avrebbe mangiato alla sua tavola e ricevuto da lui un’educazione.
E chiunque lo avesse generato, non vi fu mai dubbio che quello fosse il figlio di Canelli.