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Fallimento annunciato per una città-fantasma

da Redazione

Da 2 milioni a 700 mila abitanti. Fuga dei bianchi: crollo delle entrate fiscali. Detroit: dal 2005 la ricerca del debito facile per la spesa pubblica.

 

di Saverio Mercadante

 

E’ una città che è diventata un guscio vuoto. Una città fantasma: se passeggi alla dieci di mattina non vedi nessuno per interi isolati.

Una città oscura dove l’illuminazione stradale è stata ridotta del quaranta per cento. E i grattacieli liberty abbandonati con le finestre accecate dalle assi di legno, sono diventati uno dei simboli della decadenza della città.

Interi quartieri di palazzi residenziali sono disabitati, le aree industriali sembrano zone di guerra, la metà dei parchi cittadini sono chiusi dal 2008. Detroit, è una città fallita anche per la mancanza di liquidità. Gli abitanti a cui far pagare le tasse erano sempre di meno e sempre più disoccupati o con lavori scarsamente remunerati . Dai quasi due milioni di abitanti degli anni Cinquanta si è passati ai settecento mila attuali, di cui l’ottantacinque per cento sono neri o latinos. E’ molto probabile anche che la richiesta di bancarotta peggiori le già tese relazioni etnico-razziali di Detroit. Paul Krugman, il premio nobel per l’economia, ha definito Detroit, la nuova Grecia.

 

Federalismo egoista e perdente

 

L’estremo tentativo del commissario Kevyn Orr, un avvocato esperto in fallimenti è fallito molto prima della fine del suo mandato. Il manager incaricato di gestire l’emergenza finanziaria aveva annunciato che la città non era più in grado di onorare una parte dei prestiti dei creditori per una somma di due miliardi e mezzo di dollari. La tabella di marcia del recupero di quindici milioni di dollari al mese per diciotto mesi si è rivelata impossibile da sostenere. La profondità senza fine del buco da 18 miliardi miliardi dollari, che potrebbe arrivare anche a venti, ha fatto saltare ogni possibile speranza di recupero. E’ la maggiore città americana a far bancarotta nella storia degli Stati Uniti. Prima di Detroit, il fallimento di maggiori dimensioni era quello della contea di Jefferson in Alabama, con un buco di 4 miliardi di dollari. Tra le prime conseguenze, ci sarà il taglio di salari e pensioni per migliaia di dipendenti pubblici.

Una delle cause del default è stato anche il taglio alla città dei fondi federali a partire dagli anni Ottanta. Strategici per città come Detroit, New York e Filadelfia negli anni Sessanta e Settanta. Sotto la presidenza di Ronald Reagan negli anni Ottanta quei fondi sono spariti. Le spese per le metropoli sono passate dal 12% al 3%. Così oltre alla diminuzione delle tasse a causa della diaspora della popolazione bianca verso i suburbi urbani, si è aggiunto il taglio dei fondi statali in nome di un federalismo egoista di stampo reaganiano che imponeva l’utilizzo delle tasse laddove venivano prodotte. L’altro grande problema: l’amministrazione di Detroit, come altri comuni americani ed europei , dal 2005 decide di utilizzare il debito per affrontare la gestione della sua spesa pubblica, in particolare pensioni, cavalcando l’onda del debito facile. Trovano subito banche americane ed europee a caccia di rendimenti, alti e finanziari che mettono a disposizione gli strumenti della finanza innovativa. In aiuto (sic!) di Detroit si arrivano importanti banche svizzere, poi tedesche e belga, tutte impegnate nella cosiddetta “corsa al rendimento”.

 

Bond municipali USA a forte rischio


L’avvio della procedura di fallimento ha scatenato un conflitto legale tra i contribuenti e i creditori. I creditori sono innanzitutto i possessori dei titoli municipali. In regime di bancarotta non sono più i contribuenti che pagano ai possessori di titoli, ma i possessori di titoli che perdono il loro diritto al rimborso. I rappresentanti dei fondi hanno perso la loro battaglia per evitare la bancarotta; ora la combatteranno quantomeno per alleviarne gli effetti. Oltre agli istituti finanziari, i fondi pensionistici dei dipendenti pubblici di Detroit sono tra i principali possessori di titoli municipali. In altre parole, i sindacati.

Sino ad oggi le tasse servivano a pagare gli interessi sulle linee di credito concesse dalle banche accorse a Detroit come api sul miele. Ora dopo l’immane default gli istituti bancari dovranno leccarsi le ferite: probabilmente riceveranno non più del 10% del capitale prestato. L’obiettivo della bancarotta sembra puntare all’utilizzo delle entrate fiscali della municipalità di Detroit per ricostruire la città piuttosto che pagare pensioni e interessi. Il collasso finanziario che ha investito la città dello stato del Michigan ha diviso la città in due parte nettissime: i dipendenti ed ex-dipendenti pubblici; dall’altra, il resto dei cittadini. Chi sono? La bancarotta, un percorso che potrà durare molti anni, inevitabilmente favorirà giovani e settore privato. Il mondo del business e ciò che resta dell’industria di Detroit, hanno interpretato la richiesta di fallimento come “un nuovo inizio”, in grado di portare a una decisa riduzione di costi e carichi finanziari. E il tema della rinascita, di una nuova frontiera, tema tanto caro alla mitologia americana, furono proprio le basi delle motivazione che Marchionne usò quando Fiat entrò in Chrysler . Più volte, nei mesi scorsi, la ventilata minaccia di bancarotta era stata interpretata come un tentativo da parte dell’élite bianca e repubblicana del Michigan di prendere il controllo delle finanze della città dove il voto nero e ispanico è per la maggioranza democratico.

Il default finanziario di Detroit ha poi subito assunto un rilievo nazionale, come spesso succede a questa città. I titoli municipali saranno considerati dal mercato ancora più a rischio di quanto avveniva in precedenza. È molto probabile, secondo gli esperti, che il default dei titoli municipali di Detroit influenzerà la percezione generale del mercato su qualsiasi titolo emesso da qualsiasi amministrazione pubblica, città, contea, Stato. Da qui la preoccupazione non soltanto dello stato del Michigan ma della stessa amministrazione Obama. Un fallimento di questa portata si spera che possa essere isolato ed eccezionale. Oppure l’onda d’urto potrebbe innescare dinamiche nel mercato finanziario e nella gestione dei fondi pensioni tali da scatenare crisi in altre città. Nelle prossime settimane quello che succederà a Detroit sarà sotto la lente di ingrandimento dei sindacati, degli operatori del mercato dei bond comunali e delle altre città che negli Stati Uniti si trovano sotto la minaccia di fallimento. Circa ssessanta città e contee americane, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, hanno chiesto di accedere al Chapter 9 che regola la bancarotta municipale. Una nuova gestione del declino.

 

Gestire il declino


Sembra che nella Rust Belt, la cintura della ruggine, le città del Midwest e del Nordest statunitensi come Cleveland, Detroit, Flint, Youngstown, Buffalo si stiano affermando due modelli di gestione del declino. In alcune città si punta sul concetto di neo-suburbanizzazione, il suburbio utopico dove ogni famiglia ha il suo acro di terra. A Detroit, invece, si fa strada il concetto di città-arcipelago.

Le città della Rust Belt cercano dunque riposizionarsi su un nuovo scenario che offre un territorio in parte abbandonato e rinaturalizzato.

Qual è la migliore strategia urbanistica? Da una parte si può puntare su una sorta di neo-suburbanizzazione: singoli cittadini assemblano i terreni abbandonati e la città si trasforma in un grande suburbio, sebbene di tipo nuovo. Dall’altra si punta invece a riorganizzare la forma urbana, redistribuendo la popolazione residua in una struttura urbana profondamente rivisitata.

È la città-arcipelago elaborata negli anni Settanta dall’architetto Oswald Ungers per Berlino, e oggi ipotizzata per il futuro di Detroit, con un centro che mantiene le sue funzioni e poi una serie di nuclei urbani più o meno densamente popolati, circondati da terreni restituiti alla natura e all’agricoltura urbana.

La prima idea lascia spazio alle forze sociali e di mercato, la seconda implica un intervento importante della pubblica amministrazione.

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