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Teatro, con Mariangela Gualtieri il dialetto romagnolo va in scena

da Redazione

“Io credo che il dialetto cambi di giorno in giorno, lì dove viene parlato. Il dialetto è una lingua vivissima, anche se è vero che sta per morire: fino all’ultimo parlante sarà vivo, cioè pronto a cambiarsi, ad adeguarsi al nuovo che ha intorno”.

 

di Alessandro Carli

 

Mariangela Gualtieri è una poetessa e scrittrice italiana che a Cesena, all’inizio degli anni Ottanta, ha fondato, insieme a Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca. Nella sua opera, sia poetica che di teatro, ha spesso accentuato l’aspetto della “inadeguatezza della parola”. Tra il 1999 e il 2000 ha pubblicato e messo in scena “Parsifal”, un’opera che tratta anche il dialetto romagnolo. Con lei parliamo di questo, ma non solo.


Com’è cambiato il dialetto romagnolo negli ultimi 30 anni?

 

“Io credo che il dialetto cambi di giorno in giorno, lì dove viene parlato. Il dialetto è una lingua vivissima, anche se è vero che sta per morire: fino all’ultimo parlante sarà vivo, cioè pronto a cambiarsi, ad adeguarsi al nuovo che ha intorno. Per questo possiamo dire che ogni quartiere ha il proprio dialetto, ogni metro di terra ha il proprio dialetto che lo connota, perché è una lingua totalmente attenta alla concretezza, a ciò che ha intorno, a ciò che si mangia, si beve, si respira, come ci si veste e dunque registra ogni cambiamento, anche coniando parole nuove o adattando le vecchie”.


Nel Parsifal, l’ha utilizzato con grande efficacia. Come mai la scelta di una lingua vernacolare per questo testo?

 

“Volevo scrivere delle imprecazioni, e infatti il testo a cui ti riferisci si intitola: Coro delle bestemmiatrici. Cosa c’è di meglio del dialetto per imprecare, cioè per esprimere uno stato estremo del corpo, quello del furore e dell’ira? mi sentivo troppo stretta dentro l’italiano, sentivo che dovevo in qualche modo rompere il nitore di una lingua corretta e andare lì dove c’è più libertà, la libertà di essere eccessivi e sgangherati”.


In dialetto si può parlare di dio o con dio?

 

“Il dialetto ha le parole della concretezza e dunque se è difficile parlare di Dio, ci si può però rivolgere a ‘e Signurin’ o ‘a la Madunina’, cioè ad entità che hanno una forte connotazione umana. Tutta l’area di discorso del trascendente manca, nel dialetto, e manca talmente da farsi sentire. Non ci sono le parole, se non appunto quelle più prossime all’umano, ma ciò che manca è spesso molto vivo, molto sottolineato. Parlare di odio credo invece sia molto possibile per la capacità del dialetto di darsi colori forti, anche violenti. Ma questo odio però lo penso sempre venato di una certa ironia, di una certa derisione, di una certa comicità. Il dialetto è per me lingua materna, cioè una lingua nella quale si è tutti fratelli, una lingua larga di comprensione, di compassione e di perdono, come lo era la povera gente che lo parlava”.


Qual è il rapporto tra il dialetto e la musicalità?

 

“Ogni idioma ha la propria melodia e il dialetto, essendo soprattutto orale, ha una ricchezza enorme di suoni, suoni dolci e duri, come nel caso del nostro bellissimo romagnolo, e poi essendo lingua del corpo, più legata al corpo, alla sua vita, ai suoi bisogni, ha in chi lo parla tutta una serie di impennate, sbotti, scatti, sfagli, modulazioni di voce, da più bassa ad acuta, movimenti del corpo, gesti che spingono, accentuano, ornano, accompagnano. Credo che, in chi parla dialetto, sia viva un’intera orchestra, un intero teatro”.


Qual è la forza del dialetto?

 

“Per me la cosa più forte del dialetto è che non ha in sé classi, caste, livelli: chi lo parla è fratello, magari fratello più ricco o più povero, ma in questo comune parlare si è tutti figli della stessa madre terra, si è mangiato lo stesso cibo, bevuto lo stesso vino, e si è cresciuti dentro gli stessi paesaggi, si hanno i morti sepolti vicini, si sa che cosa è la piadina, che cosa è una rola, una caveja, quasi fossero pezzi di un mondo che è solo qui e che chiamiamo casa. Dunque ha una forza affratellante. Per questo forse il dialetto è così ricco di diminutivi e vezzeggiativi. E’ una lingua che porta intatta in sé la freschezza, l’affettività e la fantasia dell’infanzia, la sagacia feroce e comica degli adulti, la saggezza degli anziani”.

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