Dalla magnifica statua del “Cavallo impennato” esposta in piazza della Repubblica: viaggio nell’arte e nelle impronte che Aligi Sassu ha lasciato a San Marino, raccolte in una pubblicazione Carisp del 1995.
di Alessandro Carli
Il cavallo, animale particolarmente frequentato dall’immaginario collettivo, è stato, ed è, fonte di continua ispirazione per l’arte: Giorgio de Chirico, Marino Marini, Aligi Sassu, solo per citarne alcuni, hanno lavorato lungamente attorno alla forza del quadrupede.
Se Sassu, pittoricamente, ha attraversato più e più volte l’energia dell’animale (“C’erano in Sardegna cavalli rossi e neri, ambrati e sauri, pezzati, morelli e persino verdi: sì, di cavalli verdi diceva una favola, che raccontava delle incursioni saracene sino alla piana verde di Chilivani. Nella fantasia della narrazione fiabesca, la verde bandiera di Maometto si era trasformata in una tumultuosa Bardana di cavalieri e di destrieri dello stesso colore, orde lanciate alle ruberie, al saccheggio delle genti dell’isola. E agli occhi miei i cavalli non erano più gli animali stanchi dei pastori solitari che rientravano a casa nella luce dorata del tramonto. Erano i cavalli nervosi, dalle code sferzanti come fruste e dalle criniere inquiete, che Andrea Ninniri, il fabbro poeta di Thiesi, ferrava nel suo antro nero e fumoso, rischiarato a tratti da fiamme e faville”), è altrettanto vero che l’artista mise anche mano – dal punto di vista scultoreo – a una serie di cavalli. Un esempio (cinque, in tutto, gli esempi), bellissimo, si trova a San Marino, in piazza della Repubblica: qui, con le zampe rivolte al cielo, si erge il “Cavallo impennato”.
L’approccio di Sassu alla plastica, prima che per curiosità sperimentale, avvenne anzitutto per necessità pratiche di sopravvivenza, in momenti per lui particolarmente difficili; una prima volta nell’immediato anteguerra dopo l’esperienza del carcere e dell’isolamento forzato e poi negli anni successivi alla fine del conflitto in un momento di grave crisi esistenziale causata da concomitanti contrasti sia privati sia politici; in tutt’e due le occasioni l’ancora di salvataggio fu passata generosamente da Tullio d’Albisola, antico compagno delle sperimentazioni futuriste, che gli offrì l’occasione di lavorare nella sua officina ceramica di Albisola. Lì comincia da zero l’avventura di Sassu con la plastica; attraverso il passaggio obbligato della ceramica che senza dubbio gli si presentava di primo acchito con tutti i condizionamenti di “arte decorativa” quale era stata consolidata in negativo da una stanca tradizione meramente ripetitiva, forse neanche genericamente artigianale, se non nella maestria tecnica nello sfruttamento delle risorse del fuoco e delle “sorprese” apparentemente bizzarre dei coloranti ceramici. Da Sassu ci si attendeva appunto un’adeguata resa ottimale di un’ornamentazione che sfruttasse al meglio le sue sperimentate doti di colorista; ma ben presto, superati gli elementari esercizi tecnici, saranno proprio le potenzialità della materia nella sua dislocazione spaziale e nell’incidenza dinamica della luce a sollecitare la tensione creatrice del giovane artista; che dovette rispondere dialetticamente alle sollecitazioni sperimentali di due sodali d’eccezione che ebbe la fortuna di trovare ad Albisola, Agenore Fabbri e Lucio Fontana.
Aligi Sassu, nel 1995, venne omaggiato dalla Cassa di Risparmio della Repubblica di San Marino: in quell’occasione la Galleria della Carisp ospitò una serie di “respiri” dell’artista, che “entrarono” in una preziosa e numerata pubblicazione. Grazie ai contatti di Pier Giovanni Michelotti – che conosceva di persona Sassu – si riuscì a realizzare un’esposizione che ancora oggi rappresenta uno dei vertici delle mostre realizzate sul Titano. Il pubblico ebbe modo di ammirare due Arlecchini, il ciclista in piedi, il ciclista, il cavallo del mare, cavallo imbizzarrito, Poseidone dona il cavallo ad Atene, il dio pan è morto. Otto opere che spesso attraversano la muscolatura del veloce quadrupede. Quasi un’ossessione, per Sassu, come confermano le parole di Dino Buzzati: “Negli ultimi 30 anni abbiamo avuto tre grandi allevamenti di cavalli. Il primo è quello di Picasso, che ha proliferato quadrupedi più o meno genuini o bastardi sulle pareti di tutte le gallerie del mondo. Ricordate il cavallo morente nel famoso quadro intitolato ‘Guernica’? Ha avuto più figli e nipoti quel mammifero che i patriarchi del Vecchio testamento. Un cavallo espressionista. Altra scuderia, quella di Marino Marini, scultore: con prodotti potentemente stilizzati in senso nuovo e moderno ma fedeli a un ideale di purezza e nudità arcaica. Cavalli ridotti talmente all’essenziale da saper esprimere un sentimento più umano che equino. E il terzo allevamento appartiene a Aligi Sassu. Cavalli galoppanti, rampanti, volanti, per lo più imbizzarriti, pieni di estro, eleganza, mattini di primavera e fantasia”.
Cavalli, uomini ma anche mitologia. Uno spaccato della sua vasta produzione. Negli arlecchini, ad esempio, Sassu riprende con naturalezza “i motivi di elegante decorazione delle forma tradizionali delle maschere e di arguta riconsiderazione dell’ambiguità sfuggente dell’uomo, particolarmente intrigante in un momento di grande tensione morale quale quella del dopoguerra. Pur nel passaggio raggelante dalla ceramica policromia al bronzo, la forma mantiene la sciolta fluidità della modellazione diretta della materia, il gusto epidermico della vibrazione luministica che adombra i riverberi delle lamature di colore”. Nel “Il ciclista in piedi” , Sassu “riassapora il gusto terragno della manipolazione della materia, con effetti suggeriti dalla pietra o dalla terra refrattaria. Ma non per il gusto di un brutalismo ad effetto, bensì per la volontà di saggiare nell’impervio trascorrere del lume, la riconquista dinamica della traccia segnatica, il comporsi di presa diretta dell’immagine fantasticata”. Con “Il ciclista”, Sassu riprende “motivi a suo tempo rivoluzionari per l’assunto popolare del proprio repertorio degli anni Trenta: tanto più tenta di darsi consistenza strutturale nell’assetto architettonico, tanto più svela la nudità psicologica dell’atleta, totalmente disadattato all’esibizione personale”. Onde che ricercano dall’immenso vuoto liguoreo del mare, movenze rapportabili all’esperienza conoscitiva dell’uomo, nell’impeto di un’emergenza tempestosa e transeunte, forse irripetibile. Così viene presentato “Il cavallo del mare”: il peso portante dell’immagine “si materializza nell’ombra che contrasta le lame plastiche ondulanti, con un effetto di rovesciamento semantico dei vuoti e dei pieni, che sottolinea il valore fantastico dell’intuizione figurale”.
Per “Il dio pan è morto”, Sassu attinge “a un immaginario fantastico di inesauribile ampiezza, un repertorio spregiudicatamente alimentato tanto da fonti letterarie come da referenze figurali popolari, che egli amalgama in una fluida attualità del mito, con felice a-temporalità e a-spazialità che si giustifica solo nel potere di concretizzazione di una fantasia onirico-narrativa di eccezionale tenuta e di efficace persuasività”.
Sempre e comunque scultura. Perché, come disse lo stesso Sassu, “è disegno in tutti i suoi aspetti. Un filo unico che lega la figura nella mente dell’artista, un segno nello spazio, continuo, un campo ideale tra la fantasia dell’immaginazione e una realtà concreta della forma, sia pietra, argilla o qualsiasi forma plasmabile”.