Come in alcuni respiri del metateatro pirandellino anche questo capolavoro, scenicamente, risulta debole.
di Alessandro Carli
RIMINI – La messa in scena di “Aspettando Godot” – l’8 febbraio sulle assi del Novelli nella versione firmata da Jurij Ferrini e Natalino Balasso – è la conferma della diatriba tra testi magnifici per il palco e testi buoni per lo studio della drammaturgia contemporanea.
Come in alcuni respiri del metateatro pirandellino (“I sei personaggi” e “Questa sera si recita a soggetto”, bibbie da libro ma noiosetti on stage), anche per questo capolavoro di Beckett (ma forse sarebbe meglio dire di tutta la letteratura novecentesca), scenicamente, risulta debole.
Nessuna accusa alla scenografia – ben stilizzata nell’albero spoglio che sovrasta la scena e che funge da simulacro su cui si non-svolge l’attesa dei due barboni – né tantomeno all’arte dei due interpreti, appoggiati da Michele Schiano di Cola e Angelo Ronca, che ben danno corpo al tempo che non accade: le parole del drammaturgo irlandese hanno un peso sulla pagine, che non riescono ad essere replicate in scena.
La storia è conosciuta. Vladimir ed Estragon, clown e clochard dai vestiti stracciati e dalla bombetta inglese, aspettano. Il loro destino è questo: attendere il signor Godot che ha dato loro appuntamento, se non oggi sicuramente domani, in una desolata stradina di campagna dove non si vede anima viva. Cosa accade loro? Semplicemente: niente.
Così, per due ore e venti (con intervallo), si assiste alla fedeltà del testo (e della poetica di Beckett), a una scansione sempre uguale di un dio (God-ot) che non arriva, che si annuncia più volte, ma che lascia scivolare l’ansia dei protagonisti in un gioco di dialoghi sordi.
E poco importa il sold out del teatro riminese: lo spettacolo strizza l’occhio agli insegnanti delle scuole (moltissimi gli studenti in fila e appollaiati sino alla piccionaia), dimenticando gli studenti.