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Teatro e dialetto romagnolo: intervista a Fabio Bruschi e Marco Martinelli

da Redazione

La messa in scena dello spettacolo “Pantani”, firmato dall’eccellente Teatro delle Albe di Ravenna diventa un (pre)testo per allargare, a macchia di leopardo, una profonda e rinnovata riflessione sul ruolo della “parlata popolare”.

 

di Alessandro Carli

 

Il testo – in questo caso la messa in scena dello spettacolo “Pantani”, firmato dall’eccellente Teatro delle Albe di Ravenna – diventa un (pre)testo per allargare, a macchia di leopardo, una profonda e rinnovata riflessione sul ruolo del dialetto. Da un lato, Fabio Bruschi, per a lungo direttore del Premio Riccione (dalla ‘riforma Quadri’ del 1983), dall’altro Marco Martinelli, piantato come una stella alpina dell’humus drammaturgico contemporaneo e che da 30 anni lavora (e bene) nel Teatro delle Albe, e che nei giorni scorsi ha debuttato, assieme alla sua compagnia (e di Ermanna Montanari) con il corposo lavoro dedicato al grande ciclista di Cesenatico.

Nel mese dedicato – secondi ramificazioni e poetiche diverse – al romagnolo (a dicembre sono molti i cardi messi in scena lungo tutta la regione: Francesco Gabellini l’11 allo Snaporaz di Cattolica, Lorenzo Scarponi il 18 all’Astra di Bellaria , passando per Giovanni Nadiani, il 12 al 5×10 del Borgo San Giuliano di Rimini), dialoghiamo con Bruschi e Martinelli, per provare a tracciare un orizzonte. E partendo da un dato acquisito: come la marea, anche il vernacolare è soggetto, nel tempo, a lievi mutazioni. Fonetiche, ma mai di senso.

Come antichi grimpeur, ci attacchiamo al manubrio, per iniziare la salita. Senza sapere dove e se è stato posizionato un traguardo.


Fabio Bruschi ha assistito alla mise en scene del lavoro delle Albe. Quali tappe ha tagliato il dialetto?

 

“Il primo frutto della ‘riforma Quadri’ fu la vittoria nel 1985 di Enzo Moscato con ‘Pièce noire’, in un dialetto napoletano reinventato e per nulla nostalgico. Fu il primo testo in dialetto a vincere il Riccione dalla fondazione nel 1947, costituendo un autentico crinale storico tra un prima e un dopo, e preludendo all’attuale ‘risorgenza del dialetto’, come scrisse Fofi, non solo nel Meridione.

Renato Palazzi, su Sole, ha recensito ‘Pantani’, scrivendo che ‘quello che ne viene fuori è il ritratto di una società volubile, inutilmente feroce, lesta a creare i propri idoli tanto quanto ad accanirsi su di essi, sottilmente contrapposta a una Romagna dalle salde radici contadine, personificata con vigore da Luigi Dadina, il padre-sostenitore, e soprattutto da Ermanna Montanari, la madre-vestale del ricordo, che ricorre sovente, in questo caso, agli insondabili echi atavici del dialetto’. Marco – per non parlare di Ermanna – ha una lunga consuetudine teatrale con il dialetto ravennate, usato con toni diversi e su registri assai differenziati, a seconda delle esigenze drammaturgiche: si pensi al dialetto di Spadoni in ‘Lus’, alla regia di Marco e alla presenza di Ermanna in quello spettacolo ‘verticale’. Quello che mi chiedo – che chiedo a Marco – è: che dialetto usi in Pantani? Su quale nodo drammaturgico lavora il dialetto di ‘Pantani’? La risposta del pubblico dimostra ‘orecchio’? E’ ‘intonata’?”.


Marco Martinelli, un cardo nel terreno del teatro di oggi. Le Albe, come fil rouge, hanno spesso lavorato attorno al dialetto, spesso finendoci dentro. Come esce il romagnolo da questo lavoro su Pantani?

 

“Il dialetto che usiamo in ‘Pantani’ è quello che usiamo da sempre, da ‘Lus’ all’Isola di Alcina di Nevio Spadoni fino ai miei Refrattari e Incantati: quello dell’area delle Ville unite, che ha la Campiano di Ermanna al centro. Fin dall’inizio, per ‘Pantani’, abbiamo scartato l’ipotesi di usare il dialetto dei ‘veri’ Tonina e Paolo, quello di Cesenatico: sarebbe stata una forzatura, saremmo risultati stonati. Siamo rimasti ancorati a quel dialetto delle Ville unite che, stando a quel che mi diceva anni fa Raffaello Baldini, è forse il più puro, incontaminato. Ma non è mai stata una scelta ‘arcaizzante’, la nostra: è sgorgata fin dall’inizio da un valore d’uso, dal fatto che Ermanna è stata la nostra ‘guida’ in questo viaggio ventennale attraverso il dialetto come lingua d’arte, lingua di palcoscenico. Questa modalità d’uso e non dogmatica prevede una duttilità di fondo: quando Roberto Magnani ha lavorato sull’Odisea di Tonino Guerra si è fatto tradurre il testo da Giuseppe Bellosi e lo ha poi impreziosito con diversi modi di dire della ‘sua’ Castiglione di Ravenna. La reazione degli spettatori al ‘Pantani’ è stata sostanzialmente duplice: sorpresa e commozione. Sorpresa perché i ‘molti’ che son venuti a teatro (15 serate di Rasi pieno e strapieno) sono venuti diffidenti per la smisuratezza ‘epica’ del racconto, impauriti delle 3 ore e mezzo previste: e alla fine invece dicevano che il tempo ‘era volato’. Commozione perché questo è il sentimento che ha accomunato i commenti della maggioranza: sentimento raro oggi a teatro, sentimento da teatro ‘d’altri tempi’, ma non erano forse le imprese di Pantani imprese ‘d’altri tempi’? E in questa vibrazione collettiva, chi ‘capiva’ il dialetto era insieme a chi veniva da Roma o da Milano e ‘non capiva’. Probabilmente le sfumature con cui ci si emozionava erano diverse, ma unitaria era la percezione. Il dialetto, in ‘Pantani’ come in altri lavori, serve ad ancorare l’italiano. L’italiano è per me lingua d’aria, lo adoro, ma spesso ha bisogno di terra per non evaporare. Quella terra è il dialetto. Ma il dialetto è anche fuoco, è anche acqua che scorre, materia, ‘mater’. Italiano e dialetto per gli attori delle Albe sono strumenti musicali differenti, maschere del corpo oltre che della voce, perché il recitare in dialetto porta con sé anche un patrimonio di gesti e di posture. La lingua è carne, è mondo, e tocca alla drammaturgia (dell’autore e degli attori, insieme complici) saper articolare quel mondo nelle differenti voci e registri di cui è capace: comico, tragico, malinconico, beffardo, enigmatico e insondabile”.

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