Home FixingFixing Rimettetemi in mobilità: lavorare proprio non mi conviene…

Rimettetemi in mobilità: lavorare proprio non mi conviene…

da Redazione

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Cosa succede se la mobilità è più ‘alta’ del nuovo stipendio? Partiamo da un’assurda richiesta (che è stata formulata per davvero…) per aprire una riflessione sugli ammortizzatori sociali. Lo strumento andrebbe ritarato: così rischia di disincentivare la ricerca di occupazione.

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di Loris Pironi

 

SAN MARINO – Meglio stare a casa e vedersi accreditata sul conto corrente una discreta sommetta oppure andare a lavorare e portare a casa uno stipendio più basso? Posto così, il quesito può far sorridere. In realtà invece tale domanda dovrebbe rappresentare una sorta di maniglia a cui aggrapparsi per spalancare la porta su una riflessione riguardante il mondo del lavoro e capace di andare al di là della demagogia.

Perché l’amletico dubbio con cui abbiamo iniziato questa dissertazione, a San Marino, non è da escludere a priori. E diverse persone che hanno perso il proprio posto di lavoro infatti si sono trovate di fronte al dubbio: restare a casa o adeguarsi al mutato scenario? Va detto subito, a scanso di equivoci, che la legge è chiara: il lavoratore non può rinunciare al lavoro che viene offerto, pena la perdita del diritto ai trattamenti di integrazione al reddito. Però una scappatoia il furbetto di turno la può sempre trovare, malgrado l’impegno e la severità dell’Ufficio del Lavoro nel far rispettare la legge.

Proviamo adesso a riformulare la domanda iniziale e a trovare una risposta responsabile. E la risposta che diamo noi è che è meglio rimboccarsi le maniche per trovare un nuovo lavoro, anche se – può capitare – la paga è più bassa di quella che prendevamo prima. Anche se – paradosso tutto sammarinese – da un punto di vista strettamente economico magari sarebbe più conveniente stare a casa.

Perché dunque accettare questo sacrificio? Innanzitutto perché, soprattutto in tempo di crisi, è opportuno cogliere sempre l’opportunità che viene offerta per rientrare subito nel mondo del lavoro e che domani potrebbe svanire. Poi anche per una questione che potremmo definire morale: quello che si pretende dagli altri va messo in pratica anche in prima persona. È l’approccio che conta. E il discorso vale per il lavoratore, per l’imprenditore (e chi li consiglia) e naturalmente per il legislatore.

 

Approccio sbagliato

L’approccio al welfare, sul Titano, è così tutelante che finisce per disincentivare la ricerca attiva di una nuova occupazione. La portata dell’ammortizzatore sociale infatti dovrebbe permettere alla persona di vivere con dignità durante il periodo, ci si augura il più breve possibile, di ricerca di una nuova occupazione, ma chiaramente non con lo stesso tenore che avrebbe se stesse lavorando. Questione di buon senso. Invece così non è (vedi box). Diciamo tutto ciò per un motivo molto semplice: le risorse non sono infinite, e a quanto risulta a Fixing – indagheremo – il Fondo Ammortizzatori Sociali dopo questa prolungata fase di crisi è già palesemente in difficoltà.

Facciamo una premessa: la legge (la n. 73 del 31 marzo 2010, testo di riferimento a San Marino per gli ammortizzatori sociali, la potete trovare CLICCANDO QUI), ha introdotto forti incentivi per creare nuova occupazione, ed è un aspetto che va rimarcato, soprattutto in questo periodo così difficile.

Il fatto è che, come dicevamo in apertura, un modo per aggirare l’ostacolo lo si può sempre trovare. C’è poi addirittura chi, ingenuamente, candidamente, ha chiesto espressamente di tornare in mobilità perché lavorare non era conveniente… Casi reali di questo tenore, più d’uno, sono stati segnalati a Fixing da fonti autorevoli, e dunque incontrovertibili.

 

Un esempio concreto

Ma davvero sotto il profilo meramente economico può capitare che sia più conveniente stare a casa piuttosto che accettare un nuovo lavoro? La risposta è sì. Facciamo l’esempio di un ipotetico lavoratore che prendeva uno stipendio da 2.500 euro al mese, ma che per qualche motivo è stato posto in mobilità. Con l’ammortizzatore sociale, ogni mese per tutto il primo anno, il nostro lavoratore riceve come aiuto un assegno di circa 1.800 euro. Se una nuova azienda gli propone un contratto di lavoro, ma con un livello più basso rispetto a quello che aveva in passato, lo scenario prospettato sarebbe quello di portare a casa un salario iniziale anche di 2-300 euro più basso rispetto all’assegno che verrebbe garantito dall’ammortizzatore sociale per tutti i mesi rimasti. E allora, anche se il nostro lavoratore è armato di tutta la buona volontà, è facile pensare che lo spirito con cui si accetta la nuova esperienza lavorativa possa non essere dei migliori.

 

Controproposta

L’idea allora potrebbe essere quella di mantenere sì l’altissimo livello degli ammortizzatori sociali esistenti in Repubblica, ma tarandoli su un meccanismo che funzioni più da incentivo: mutuando l’esperienza di altre realtà vicine si potrebbe ad esempio pensare di ridurre la percentuale rispetto alla precedente retribuzione che determina la cifra dell’indennità salariale, ma allungare questo trattamento nei mesi. Fornire un sussidio equo ma che incentivi il ritorno al lavoro rappresenterebbe uno strumento utile non solo per le imprese ma anche per gli stessi lavoratori.

Il problema, a questo punto, è culturale, morale addirittura. Una gestione non dettata dalla responsabilità e dalla parsimonia avrebbe infatti ripercussioni pesanti sull’intero mondo del lavoro.

Anche in questo caso va invocato un vero e proprio cambio di mentalità, sia da parte degli imprenditori che dei lavoratori. Perché oggi – è un dato di fatto – non ci sono più risorse a cui attingere liberamente a piene mani.

 

 

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