SAN MARINO – Sono opere immortali. Rappresentano una grande nazione, gli Stati Uniti d’America. Raccontano un secolo, il XX°, estremamente ricco, di drammi storici, di personaggi, di arte e di cultura. Di fermento.
La mostra “Da Hopper a Warhol. Pittura americana del XX secolo a San Marino” resterà aperta a Palazzo S.U.M.S. sino al prossimo 3 giugno. La mostra è promossa dalla Fondazione San Marino Cassa di Risparmio S.U.M.S. in sinergia con la Segreteria di Stato per il Turismo, la Segreteria di Stato per la Cultura, la Società Unione Mutuo Soccorso e due importanti Sponsor privati quali Ceramica del Conca S.p.A. e S.I.T. S.p.A..
In questo focus presentiamo alcune delle opere più belle esposte a San Marino. Una sorta di piccola guida per gustarsi di più la visita alla mostra.
Laboriosità (donne che filano) [1924-27]
Thomas Hart Benton
Gli USA non sono solo grandi città, New York, Los Angeles, Chicago. Sono anche, soprattutto, una realtà di provincia, rurale, lontana da tutto. Thomas Hart Benton negli anni Trenta rappresentò bene questa realtà, tanto che oggi – assieme a Grant Wood e John Steuart Curry – è considerato uno dei padri della corrente artistica del regionalismo. Laboriosità (Donne che filano), collocato nel cosiddetto periodo “coloniale”, rappresenta la vita nel laborioso Mid-west ed è un’opera che assume una maggiore peculiarità in quanto il soggetto non è maschile. È l’elogio alle tante donne che, silenziosamente, hanno portato il proprio contributo alla crescita del Paese.
Emporio [1927]
Edward Hopper
“È difficile trovare un pittore che nei suoi quadri esprima l’America meglio di Hopper”. Questo giudizio sintetico ma assolutamente calzante lo scrisse, nel 1927, il critico Lloyd Goodrich. Hopper con le sue immagini evocative e senza tempo è pittore della solitudine, e anche in Emporio l’archetipo di questo angolo buio di città è rappresentato proprio dal silenzio, dalla solitudine, dal mistero. L’ambientazione è un panorama urbano deserto, quasi sospeso, un frammento insospettabile di quella New York che invece noi oggi ci immaginiamo caotica e piena di vita. E il buio della città qui viene contrastato in maniera decisa dalla luce intensa che esce dalla vetrina del negozio, lasciando spazio alle interpretazioni.
N. 19 (Senza Titolo) [1949]
Mark Rothko
La critica ci ricorda che nella seconda metà degli anni Quaranta la pittura di Rothko subì un importante cambiamento. Abbandonò la raffigurazione biomorfica, che lasciò il posto ai Multiforms, termine coniato dopo la sua morte. Di questi Multiforms, incontri-scontri di macchie di colore, fluttuanti nello spazio del dipinto, fa parte anche N. 19, realizzato nel 1940. Il colore divora le forme e diventa protagonista, sfida la fantasia e produce un’energia quasi mistica, “espressione semplice di pensieri complessi” capace di dialogare con l’infinito interiore dell’osservatore. Osservatore che deve essere pronto a relazionarsi con l’opera in maniera attiva, ed è questo l’approccio innovativo di Rothko.
Teschio di cervo e il monte Pedernal [1936]
Georgia O’Keeffe
Rancho de los Burros, New Mexico. Qui Georgia O’Keeffe si reca in cerca di ispirazione nel 1936, qui – decisamente – finisce per trovare ciò che cerca. Teschio di cervo e il monte Pedernal è effettivamente una delle opere in cui maggiormente riesce a trovare un contatto con la natura. “Volevo dipingere il deserto ma non sapevo come”, spiegò l’artista. E così decise di portarsi a casa le ossa di un cervo sbiancate dal sole, che campeggiano al centro dell’opera, appese ad un albero. Ossa che non sono un inno alla morte ma alla natura, alla fantasia. Sullo sfondo le curve del Cerro Pedernal: “il mio monte privato”, come amava definirlo O’Keeffe.
Good Hope Road [1945]
Arshile Gorky
Il mondo è in guerra, Arshile Gorky invece proprio in questo periodo vive uno dei suoi rari momenti di tranquillità. E’ il 1944, Gorky inizia a vivere buona parte del suo tempo in campagna, a Roxbury, Connecticut, in Good Hope Road. Qui comporrà l’omonima opera, esposta a San Marino, uno dei più brillanti punti di riferimento del surrealismo astratto. Rapidi segni, macchie di colore prendono vita sullo sfondo chiaro, segni che per i critici diventano rappresentazioni del significato universale, nello specifico l’orrore del genocidio armeno, le difficoltà di vivere. Dopo una vita molto intensa e troppo breve, Gorky morirà appena 4 anni dopo, a soli 44 anni.
Numero 9 [1949]
Jackson Pollock
Il pittore americano per eccellenza. Così era reputato Jackson Pollock, con i suoi dipinti così impetuosi, tempestosi, intensi. Pollock, raccontano le cronache, dipingeva i suoi quadri stesi sul pavimento, lavorando dai quattro lati, entrando letteralmente dentro la tela. Un tuffo nella propria creatività senza pari, fatta di segni aggrovigliati, di impareggiabili percorsi cromatici, di struggente energia. “La pittura astratta è astratta”, affermava Pollock. Un critico contemporaneo scrisse che i suoi dipinti “non hanno inizio né fine”. E l’artista ha fatto propria questa definizione, che effettivamente calza come un guanto per l’intera sua produzione.
Senza Titolo [1984]
Keith Haring
Negli anni Settanta esplose la graffiti art. Usiamo il termine esplose non a caso, perché fu un fenomeno di straordinario impatto artistico e di dirompente spontaneità. New York, che non è la New York di oggi, era in fermento, e mantenne questa prerogativa per tutti gli anni Ottanta e buona parte dei Novanta. In questi anni dal nulla emerse Keith Haring, fantasia creatrice inesauribile, produzione sterminata di disegni, dipinti, murales, oggetti decorati con un’inconfondibile cifra stilistica. Morirà nel 1990, di AIDS, a soli 31 anni. Tra le sue opere il Senza titolo del 1984 in mostra a San Marino è emblematico della sua espressività. Un acrilico quadrato, arancione e blu di linee e curve, su quattro pannelli di mussola di oltre tre metri per lato che occupa tutta una parete.
Blu e Giallo [1955]
Sam Francis
Sam Francis appartiene a quella che è stata definita la seconda generazione dell’espressionismo astratto. Il suo percorso è articolato, ricco di stimoli creativi e artistici, di esperienze, di viaggi. Influenzato da Pollock, Gorky, Tobery e Baziotes, dal 1950 al 1957 si trasferisce in Europa e questo viaggio gli fa scoprire nuove ispirazioni e nuovi fascinosi influssi. Nel 1955 esegue Blu e Giallo, esposto a San Marino. “L’astrazione di questa opera – è scritto nel catalogo – combina, sulla base dell’astrattismo lirico e della sperimentazione sul colore, l’impulsività vitalistica e i metodi dell’Action painting con l’allusività poetica e delicata propria del Color field painting”. I colori sgocciolati, gli agglomerati di forme, sono tutte espressioni di grande energia.
Jackie [1964]
Andy Warhol
Di Andy Warhol si è detto e scritto di tutto. Nel 1962, dopo la personale scoperta della serigrafia per la riproduzione seriale delle immagini, produce alcune delle sue serie più celebri, dalle Campbell’s Soup Cans alle Marilyn. E dopo Marilyn, Warhol comincia a riprodurre i personaggi più celebri del tempo. Una delle sue serie più famose è quella dedicata a Jacqueline Lee Bouvier Kennedy, da poco vedova di John Fitzgerald. In mostra a San Marino una Jackie su sfondo blu, sorriso glamour da vera diva. Sul Titano anche un Autoritratto mimetico di Warhol e una Statua della Libertà, entrambi del 1986.
Nudo con piramide [1994]
Roy Lichtenstein
Siamo in piena epoca pop, e cosa c’è di più pop del fumetto? Roy Lichtenstein introduce una profonda riflessione sul rapporto tra forme espressive considerate (a torto, aggiungiamo noi) di serie B, come appunto i comics, e arte “alta”. Come in Nudo con piramide l’artista usa un linguaggio di immediata comprensibilità, decorativo e provocatorio, ironico e paradossale. L’arte di Lichtenstein, così vigorosamente ambivalente, plasma e trasfigura il reale per trasformarlo in altro.