Abbiamo aperto lo scorso numero di Fixing con un argomento di grande interesse, a San Marino, ovvero la privatizzazione della Centrale del Latte. E oggi ci torniamo sopra perché occorre uscire da questa anacronistica mentalità statalista.
di Loris Pironi
SAN MARINO – Abbiamo aperto lo scorso numero di Fixing con un argomento di grande interesse, a San Marino, ovvero la privatizzazione della Centrale del Latte.
L’intuito da ormai vecchio cronista mi ha suggerito, la passata settimana, che fosse giunto il momento di tornare a chiedere lumi a Simona Michelotti, capocordata dell’unica cordata di imprenditori che hanno avanzato una proposta per il salvataggio di questa struttura statale. La scelta si è rivelata azzeccata per il tempismo. E infatti, nel frattempo questa intervista ha fatto discutere.
Oggi torniamo sull’argomento per un paio di riflessioni sul caso, e più in generale sul tema delle privatizzazioni a San Marino. La prima riguarda il destino della stessa Centrale. È davvero la scelta migliore quella di privatizzarla? O forse sarebbe più opportuno lasciarla nelle mani dello Stato? Se l’è chiesto, rispondendo alle nostre domande, anche Simona Michelotti. Che ha aggiunto l’ipotesi di una terza via, ovvero quella di rinunciare alla Centrale del Latte – ormai ne rimangono poche in circolazione, anche in Italia – qualora i cittadini sammarinesi decidano, tramite referendum, che preferiscono sentirsi liberi di bere un latte Granarolo o Parmalat qualsiasi senza dover essere costretti a scegliere quello proveniente dalle stalle dietro casa.
Tale ipotesi non è così pellegrina, anche perché da una parte c’è uno Stato che negli anni (nei decenni) ha dimostrato di non essere interessato al proprio latte, dall’altra ci sono gli imprenditori talvolta accusati – strumentalmente, a parer nostro, ma questo conta poco – di voler far profitto con questo prodotto.
Il fatto è che la Centrale del Latte produce utili, può dire qualcuno, e allora perché privatizzarla? La risposta è semplice: produce utili (100 mila euro, l’anno scorso) per il fatto che non si è mai investito, fino a rendere ora indispensabile una ristrutturazione totale. Calcolando che occorrono 2,5-2,8 milioni di euro per rimetterla a posto, si fa presto a capire che a colpi di 100 mila euro annui servirebbe quasi un trentennio per coprire la spesa. Lo stesso periodo previsto dalla convenzione prima che la Centrale, una volta rimessa in piedi, torni nelle mani pubbliche.
Con una gestione sana e di stampo imprenditoriale si può fare molto di più, certo, ma l’inefficienza statalista è esemplare, a San Marino come in Italia.
Perché i privati allora hanno deciso di tentare il salvataggio? Per amor di patria, ha assicurato a Fixing Simona Michelotti. Perché un gruppo di imprenditori (l’élite imprenditoriale, ci sono i vari Colombini, Mularoni, Michelotti, Capicchioni…), capaci di internazionalizzare e brillare nel confronto con tutti i migliori competitor in circolazione, se decidono di buttarsi in un’avventura simile, lo possono fare solo come passatempo oppure perché convinti di poter dare una mano al Paese.
La deriva statalista di stampo socialista che ha affossato la Centrale del Latte e che ha prodotto una spesa pubblica che a San Marino sfora il 90%, rappresenta l’emblema di una mentalità deleteria da cui, a nostro avviso, da onesti ma convinti liberisti, i sammarinesi si dovrebbero liberare, per poter entrare una volta per tutte nella modernità. E se lo facessero darebbero anche il giro anche alla claudicante Italia dei tecnocrati, convinti di poter far ripartire il Paese con i taxi.
Oppure si può restare radicati nella convinzione che lo Stato sammarinese deve pensare a tutto, dalla colazione alla fossa.
Ma ci si dovrà mettere in testa che, nei tempi di vacche magre che ci aspettano si dovrà incominciare a pagare davvero per i servizi, gli sprechi e le inefficienze che sono l’inevitabile corollario di un simile anacronismo. Che ormai non va più di moda neppure in Cina o a Cuba.