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Oscar Giannino: liberali è tempo di disobbedienza fiscale, pubblica e autodichiarata

da Redazione

di Oscar Giannino

 

Oscar-GianninoE’ tempo di riscoprire i presupposti della disobbedienza fiscale. Pubblica e organizzata. Befera e l’Agenzia delle Entrate ed anche Equitalia non c’entrano. Chi manda bombe e proiettili, è il nostro nemico e deve smetterla al più presto. Perché ci sono cascati tutti o quasi. Per l’ennesima volta. Ed è anche per questo che nutro una considerazione sempre più elevata per Attilio Befera, il capo dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia, e per la sua squadra che da anni ha mutato assetto organizzativo, efficacia e risultati concreti della lotta all’evasione, in perenne crescita. Non è un camaleonte perché confermato da sinistra e destra, come ha titolato La Stampa, perché in un Paese iperammalato di spoil system se Visco e Tremonti gli hanno dato fiducia è solo per i risultati concreti. E non è vero che la lena delle Entrate si è attenuata quando non c’era Visco, come l’intemerato deus ex machina fiscale della sinistra ha tuonato in un’intervista dopo Cortina. Al contrario, Befera coglie nel segno non solo perché il recuperato fiscale è cresciuto sempre e raddoppiato in cinque anni superando gli 11 miliardi in 12 mesi. Va a segno anche perché si è fatto aumentare i poteri sia dalla destra che dal governo dei tecnici. E perché l’azione delle Entrate si svolge anche con un abile occhio agli echi mediatici delle sue iniziative. Dai vip dello sport alle star dello spettacolo ai vacanzieri di Cortina, l’incazzatura dei lavoratori dipendenti soggetti senza scampo al sostituto d’imposta è assicurata. Ma il problema non è Befera e non sono i suoi. Fanno tostamente il loro mestiere. Il viso dell’arme è ciò che lo Stato chiede loro. Servono lo Stato. Il problema è la politica, che dello Stato scrive le leggi fiscali. Anzi i decreti legge, le circolari e i regolamenti, in violazione dell’articolo 23 della Costituzione che prescrive la riserva di legge assoluta per i nuovi tributi. Il problema è la giustizia, che tanto in Cassazione quanto alla Corte costituzionale ha accumulato una terrificante giurisprudenza a senso unico, per la quale in materia fiscale lo Stato ha praticamente sempre ragione. Ha sempre ragione, anche quando asimmetricamente pretende per sé un rispetto assoluto dei tempi di versamento e del quantum gli si deve, mentre per pagare le fatture dovute ai privati o per il rimborso dei crediti fiscali impiega discrezionalmente anni. Ha sempre ragione, anche quando stabilisce e pretende che per la sola temeraria decisione del contribuente di accedere a contenzioso fiscale, questi debba versare allo Stato subito un terzo di ciò che lo Stato pretende e che i contribuente contesta, con in più oneri e aggi. Ha sempre ragione, anche se nel contenzioso il giudice tributario non è affatto terzo rispetto a contribuente ed Entrate, ma di fatto parte esterna e concomitante dell’amministrazione tributaria. Ha sempre ragione, anche quando con il governo Monti lo Stato dispone il pieno accesso delle Entrate non solo ai conti bancari con relativi saldi, ma a qualunque operazione bancaria da parte di chiunque. Col che in nome della lotta all’evasione e al riciclaggio passiamo da una foto statica del patrimonio e dei saldi bancari di noi tutti all’integrale film comportamentale di qualunque cosa facciamo per ogni singola unità di tempo. In maniera che un pm potrà anche solo da una successione di operazioni bancarie nel tempo incardinare fascicoli identificandoli come ipotesi di reato. E la Costituzione, dove la mettiamo?

Gli studi di settore, per anni divenuti strumenti induttivi dai quali far discendere unilateralmente da parte dello Stato cifre d’affari, basi imponibili e imposte dovute e pretese, prescindendo da ciò che capita davvero in concreto a ciascuna microimpresa artigiana o professionale interessata, non sono forse in violazione dell’articolo 53 della Costituzione sulla capacità contributiva individuale? E i conti correnti in toto girati allo Stato, non sono violazione dell’articolo 15 della Carta Fondamentale? Quell’articolo che testualmente afferma: “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”?

Il diritto naturale pre esiste a ogni statuizione dell’ordinamento positivo, per chi non è hegeliano sostenitore dello Stato etico, e non fa differenza se sia rosso o nero a seconda di quale filone dei discepoli di Fichte abbia fondato le rispettive ideologie politiche. Ma ogni più sacro fondamento del diritto di persone e individui viene da anni sempre più calpestato, in materia fiscale. Perché lo Stato assetato di risorse si dà ragione nel diritto e nella giurisprudenza. Persino l’abuso di diritto, secondo la Repubblica italiana e i suoi giudici, si configura solo a carico del contribuente contro lo Stato e mai viceversa. Nemmeno quando l’Agenzia delle Entrate non rimuove i pignoramenti su appartamenti per debiti fiscali contestati inferiori agli 8mila euro, come pure una sentenza di Cassazione avrebbe stabilito nel 2010.

Quando si muovono tali obiezioni una risposta corale viene immediatamente dal fronte statalista, che di fatto ha accomunato negli anni sinistra, destra e oggi governo dei tecnici, tutti uniti nella sacra parola d’ordine “lotta all’evasione”, tutti dimentichi e conniventi dello scandalo di una pressione fiscale in perenne crescita, salita di oltre 20 punti di Pil in una sola generazione, al continuo inseguimento di una spesa pubblica superiore a metà del prodotto nazionale, scandalosamente inefficiente e clientelare, al servizio degli interessi di chi protempore amministra lo Stato perennemente, impunemente e sfacciatamente spacciati per interesse generale. La risposta corale del fronte statalista è “vergogna, voi difendete quei criminali abietti che sono gli evasori”.

Le quattro mosche bianche residue liberali ne hanno le tasche piene, di questa accusa. Non serve aver letto e citare de la Boètie e John Locke, sant’Agostino e san Tommaso, Thomas Jefferson e l’abate Mably (che pure è fondatore del socialismo utopico, più che liberale), i fondamenti del diritto naturale in materia fiscale che hanno ispirato le grandi evoluzioni liberali della Storia, la testa tagliata di Carlo I e la Glorious Revolution del 1688, la rivolta delle Colonie americane e la nascita egli Stati Uniti. Ti aggrediscono come un nemico del popolo, dicono che vuoi sottrarre risorse ai servizi pubblici. Quando invece è vero il contrario. Loro mandano in tv spot tambureggianti in cui l’evasore è accusato di rubarmi in tasca, quando invece tutto ciò che lo Stato recupera se lo tiene per sé come spesa aggiuntiva, mica lo retrocede a chi le tasse le paga per premiarlo: ed è colpa suprema del centrodestra, non aver riconosciuto e introdotto tale principio.

E allora, penso io, è tempo che i liberali si organizzino. E che pensino alla disobbedienza fiscale. Quella pubblica e autodichiarata. Esposta a pene che spacchino e facciano discutere l’opinione pubblica per aprire gli occhi e risvegliare coscienze dormienti. Alla ricerca di magistrati che incardinino presso la Corte costituzionale giudizi incidentali che sollevino il problema dell’incostituzionalità di una delle tante aberrazioni fiscali che nel nostro Paese ci hanno reso servi di fatto, da cittadini di nome. Ce ne sarà almeno uno, su settemila magistrati, che la pensi così. E che segua la stessa strada per cui la Germania 10 anni fa è tornata a un sacro rispetto di un tetto, aggiornato anno per anno con pubblico voto parlamentare, di reddito personale e familiare intangibile a ogni pretesa dell’ordinamento. E’ bastato stabilire questo, perché spesa pubblica e imposte siano scesi in equilibrio di quasi 7 punti di Pil, liberando energie potenti per la crescita del Paese e del benessere di ciascuno.

Le basi di diritto, per la disobbedienza civile fiscale? Ci sono eccome. Prendete La giustizia costituzionale di Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte e teso sacro alla sinistra. A pagina 276 dell’edizione 1988 leggerete: a) la legge incostituzionale non è obbligatoria; b) tuttavia non è neppure obbligatoria la disobbedienza ad essa, tale disobbedienza essendo solo consentita o ammessa; c) la disobbedienza alla legge è invece giuridicamente doverosa nei casi i cui i singoli si rappresentino con piena consapevolezza l’indiscutibile incostituzionalità della legge.

Alla prima sottocommisione della Costituente, il 3 dicembre 1946, furono tra gli altri Aldo Moro, Meuccio Ruini e Giuseppe Dossetti a difendere una formulazione che così recitava, annessa a quello che divenne poi l’articolo 54 odierno della Costituzione: “la resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”. Togliatti, sprezzante, intervenne sostenendo che le rivoluzioni sono tali perché vincono, non perché esistano diritti alla disobbedienza in Costituzione. Naturalmente, la disobbedienza civile liberale non c’entrava nulla con le rivoluzioni rosse e nere. Ma tanto bastò perché la proposta cadesse, al fine di non dare appigli alla piazza filosovietica. E’ amaro dirlo. Ma gli statalisti che allora vinsero in nome della rivoluzione contro i diritti naturali della persona, oggi continuano a farne strame in nome del fisco e della spesa pubblica. Finché almeno qualcuno non si svegli, in campo liberale. Sve-glia-mo-ci! Non è cosa da far da soli. E non è da delegare alle associazioni di categoria e d’impresa. E’ cosa da uomini liberi, che sappiano misurare le parole agli insulti che riceveranno. Solo ancora ieri, Corrado Augias rispondeva a un lettore di Repubblica caricaturando i “pittoreschi personaggi” che vanno in tv e per giornali a dire quel che dico io e che pensiamo noi. Saremo pure pittoreschi, ma abbiamo letto e studiato abbastanza per sapere che chi difende lo Stato nei suoi vizi e stravizi non può che essere un nemico della libertà. Fosse anche il più grande ideale a indurlo a giustificare una sospesa pubblica e un prelievo pubblico tanto scandalosi, per noi resta un ideale sbagliato. Perché la libertà viene prima.

 

 

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