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Teatro, Natalino in casa Balasso: intervista all’artista veneto

da Redazione

Poco più di un mese fa è iniziata la tournée del nuovo monologo di Natalino Balasso, intitolato “L’idiota di Galilea”.

 

di Alessandro Carli

 

Poco più di un mese fa è iniziata la tournée del nuovo monologo di Natalino Balasso, intitolato “L’idiota di Galilea”. Nella speranza di vederlo in Romagna, lo abbiamo raggiunto per farci raccontare le pieghe del nuovo lavoro e, in senso più ampio, il suo rapporto con il dialetto veneto e con lo straordinario “Libera nos a Malo”, libro di Luigi Meneghello che lo stesso Balasso, qualche anno fa, ha portato a sui palchi di tutta Italia. Un’intervista che spazia dalla drammaturgia alla televisione, e che poi declina verso l’osmosi – spesso non così profonda – tra regista e attore.

 

Lei, nei suoi spettacoli, si è spesso affidato al dialetto. Che rapporto ha con la lingua veneta?


“La lingua veneta non esiste, è un’invenzione della Lega, così come le lingue regionali sorte ultimamente, voglio dire, il Veneto non è mai stato un’entità politica come la Sicilia, una lingua è espressione di uno Stato, il dialetto è la lingua materna, che esprime i sentimenti e l’emotività, ma non può esprimere la burocrazia, perché è circoscritto in uno spazio quasi provinciale. Io capisco molti dialetti veneti, così come buona parte degli emiliani e dei lombardi. Da piccolo amavo ascoltare Govi, è per questo che capisco abbastanza il genovese. Sono d’accordo con Meneghello quando dice che il dialetto, la lingua materna, non impoverisce ma arricchisce l’italiano”.

 

Cosa racconta – oggi – Luigi Meneghello di “Libera nos a Malo”?


“Credo che quei racconti che illustrano il Veneto un po’ ingenuo che scavalla le due guerre arrangiandosi un po’ con la furbizia rurale, un po’ con la tenacia dei suoi abitanti, riescano a mettere a fuoco quello che sarebbe poi successo, tutta la distesa di capannoni e l’edilizia selvaggia che ha devastato la Regione e non ha ancora finito di farlo. I rampanti figli dei ricchi, che hanno avuto tutto e se sentono parlare con accento slavo cominciano a guardare dall’alto in basso. L’ignoranza portata a modello. Ho sentito di recente qualcuno vantarsi di non saper parlare italiano. L’ignoranza sta diventando un vanto”.

 

Quanto influisce l’esposizione televisiva di un artista nelle presenze a teatro?


“All’inizio i teatri sono pieni. Però sono pieni di gente che vuole vedere la televisione, cioè vuole che tu a teatro ripeta quello che ti ha visto fare in tv. Se tu fai qualcos’altro (e in teatro è quasi necessario fare qualcos’altro) ti abbandonano. Io ho passato 2-3 anni col pubblico che diminuiva a vista d’occhio. Poi però, lavorando sodo e proponendo spettacoli di buona qualità, il pubblico è tornato. Ma non sono tornati gli spettatori televisivi, sono tornati quelli che a teatro ci vanno e magari ogni tanto pretendono qualcosa di spessore”.

 

Qual è, secondo lei, la differenza tra televisione e teatro?


“La televisione si fa nei televisori, mentre il teatro si fa nei teatri. Non si possono mettere sullo stesso piano, non si può fare un paragone di questo genere. La differenza è che la televisione si può fare anche da morti, mentre per fare teatro è necessario essere vivi”.

 

Ci può raccontare la nascita e la messa in scena de “L’idiota di Galilea”?


“Cercavo il modo di raccontare la nostra indifferenza nei confronti dei semplici, degli ultimi della terra, quelli che non hanno l’intelligenza di capire che hanno dei diritti come tutti gli esseri umani. Cercavo una persona talmente buona da non capire la differenza tra il bene e il male, talmente poco avida da non capire nemmeno cos’è il denaro. E’ un idiota dovstoieskiano, cosciente di esserlo, ma è anche l’idiota filosofo di Niccolò Cusano, che costruisce solo cucchiai di legno (il mio idiota sa solo piallare il legno) e trova nell’artigianalità, nel lavoro delle mani, l’unica ragione della sua vita. La sua intelligenza è rivolta all’interno di sé e non riesce ad esprimere ciò che vede e sente. Perciò quando noi a teatro lo ascoltiamo, non udiamo le sue parole ma i suoi pensieri, perché a livello di pensiero è esattamente come noi”.

 

Lei, ne “L’idiota di Galilea”, è anche drammaturgo: come ha lavorato per la messa in scena?


“Scrivo sempre i testi dei miei monologhi. In questo lavoro mi sono avvalso dell’aiuto di una regista, Stefania Felicioli, che è anche una bravissima attrice (l’unica che ha vinto 2 premi Duse, il più ambito premio per un’attrice in teatro) e con la sua esperienza ha portato il livello recitativo non sul piano del racconto, non sulla narrazione, ma sull’accadimento: l’idiota rivive quello che racconta, il suo rapporto con gli apostoli, la sua ammirazione per il Maestro, il suo incontro col Demonio. Ci sono molti personaggi oltre l’idiota, ad esempio c’è sua madre, c’è un centurione romano, c’è il Maestro, c’è il discepolo Tomaso, c’è il Demonio ed altri ancora e tutti questi personaggi prendono vita sul palco, non sono raccontati ma vissuti”.

 

Qual è la magia che avviene tra un attore e un regista?


“Non credo che avvenga nessuna magia, è un lavoro faticoso, che dura molte ore e qualche mese e che il pubblico non vede. E’ il motivo per cui m’interessano poco le critiche sui giornali, perché il critico viene a teatro senza pagare il biglietto, magari non gl’interessava nemmeno lo spettacolo e in due ore, a seconda di cos’ha mangiato, si è già fatto un’idea su tutto e poi scrive del lavoro degli attori dei registi e risponde in una riga spesso in maniera assai grossolana a domande che attori e registi si sono posti mille e mille volte e alle quali hanno trovato risposte più interessanti delle sue. Ci sono poi molti tipi di attori o di registi, ciascuno ha il suo modo di lavorare. Niente mette a dura prova l’adattabilità caratteriale più del lavoro di attori e registi”.

 

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