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Inghilterra isolata: la City ha deciso di alzare il ponte

da Redazione

E’ il più grande paradiso fiscale del pianeta, seconda piazza dopo New York. Diramazioni nelle Cayman, Jersey, Bermuda, Singapore e Hong Kong.

 

di Saverio Mercadante

 

E’ sempre una questione di City. E di Tory. David Cameron non poteva certo mettersi contro il suo stesso partito, da sempre euroscettico. La tenaglia di Conservatori e Finanza, non ha consentito al premier inglese di accettare l’accordo fiscale a 27 con l’Unione Europea. E pazienza se il suo vice Nick Clegg, leader dei liberal democratici non l’abbia presa proprio bene. Oltre agli oppositori laburisti, s’intende. E’ convinto che il veto inglese sarà molto penalizzante per l’occupazione e per la crescita della Gran Bretagna. “Ci lascia isolati in Europa e va contro i nostri interessi nazionali. Il timore è che diventiamo ‘the lonely man of Europe’ (l’uomo solitario in Europa)”. I motivi di questa sofferta decisione li ha spiegati bene il Financial Times: “Cameron aveva auspicato che ogni accordo per rafforzare la disciplina fiscale nei 17 Paesi dell’Eurozona non avesse ripercussioni sui mercati delle 10 nazioni che aderiscono all’Ue ma non fanno parte della moneta unica”, si legge sul quotidiano economico. “Il premier inglese aveva inoltre richiesto l’inclusione nel nuovo trattato di un protocollo ad hoc per tutelare la City di Londra dai nuovi regolamenti europei oltre alla rassicurazione che la European banking authority sarebbe rimasta a Londra unita a forme speciali di protezione per le istituzioni finanziarie americane con sede nella capitale inglese ma che non fanno affari con il resto d’Europa”. Troppo per Merkel e Sarkozy. Dieci ore di riunione tra i 27 d’Europa non sono servite a nulla. E’ seguito un corpo a corpo chiusi in una stanza tra Sarkozy e Cameron. Alle 5 di mattina di venerdì 9 dicembre, il primo ministro inglese ha ammesso il fallimento delle trattative: “Quello in discussione non sarà un trattato che sottoscriveremo”. In particolare i diciassette paesi dell’Eurozona (più i 9 fuori che hanno detto sì o che lo faranno dopo aver consultato il Parlamento) hanno concordato che dal luglio 2012 il fondo permanente salva-Stati (Esm) sarà operativo e sostituirà l’Efsf, ma non avrà poteri sulla ricapitalizzazione delle banche, né lo status di istituto di credito. L’obbligo per i Paesi di restare entro il 3% di deficit è rimasto rigido e con esso resta l’automaticità delle sanzioni a chi non rispetterà il limite previsto. Vi è anche l’impegno dei Paesi Ue a versare risorse addizionali di 200 miliardi di euro al Fmi. L’inquilino del numero 10 di Downing Street non poteva non mettere nel conto delle sue decisioni l’enorme peso della seconda piazza finanziaria del mondo, dopo New York. La City di Londra per l’economia della Gran Bretagna è di importanza strategica: contribuisce pesantemente alla fiscalità del Paese e offre lavoro a centinaia di migliaia di individui. Forse non tutti sanno che è un quartiere di Londra che non dipende dall’amministrazione comunale. E’ di fatto  una corporazione a se stante – la dizione esatta è City of London Corporation –  con un suo sindaco, un suo organo consiliare composto da 100 membri, suoi magistrati e forze dell’ordine. Sono oltre 500 solo le banche presenti, ben 254 sono straniere. Per alcuni analisti è il più grande paradiso fiscale del pianeta, con diramazioni nelle Cayman Island, Jersey,  Bermuda, a Singapore, Hong Kong. Tutto è pensato nel “regno autonomo” della City per eludere la pressione fiscale e gestire nel modo migliore i profitti miliardari del mondo della finanza che ruota attorno allo square mile, il miglio quadrato occupato dalla Corporazione. Che gestisce strumenti finanziari a rischio come i derivati (42% del totale del mercato mondiale). E forse proprio su questo settore che tanti danni ha fatto nel passato scatenando la crisi del 2008, la City non vuole che la UE abbia voce in capitolo limitando l’enorme giro d’affari. A un deputato labourista che ha fatto notare come le banche britanniche siano in possesso di bond europei per il valore di 75 miliardi di sterline, il premier Tory ha risposto: “Faremo tutto il possibile per prevenire un collasso dell’Eurozona. Restare membri dell’Ue è vitale per gli interessi della Gran Bretagna”, ha detto il primo ministro. E ha aggiunto: “La Gran Bretagna resta membro dell’Ue e quanto accaduto a Bruxelles non cambia le cose. Siamo una nazione commerciale e abbiamo bisogno del mercato unico per il commercio, gli investimenti ed i posti di lavoro. Siamo nell’Ue e ci vogliamo rimanere”. Forse. Perché a Sarkozy aveva risposto: “Noi non vogliamo aderire all’euro, siamo contenti di esserne fuori, come lo siamo di non fare parte della zona Schengen. Noi non vogliamo rinunciare alla nostra sovranità come stanno facendo questi Paesi. Noi vogliamo i nostri tassi di interesse, la nostra politica monetaria: facciano un trattato tra di loro”. La decisione della Gran Bretagna di rifiutare la proposta di riforma dei trattati “è stata difficile, ma buona”. ha dichiarato Cameron dopo il fallimento dell’accordo a 27. Per la Gran Bretagna “è stato meglio essere fuori” perché ciò che è uscito “non è nel suo interesse”. Forse. Il Commissario Ue agli affari economici, Olli Rehn, ha dichiarato che il veto di Londra alla modifica ai Trattati non esonererà il Paese dalle più stringenti norme in materia finanziaria che entreranno in vigore, a cominciare dal cosiddetto “six pack” atteso per questa settimana. Si tratta nel dettaglio di un insieme di provvedimenti volti a dettare un maggior rigore nei bilanci dei paesi dell’Eurozona che stabilisce sanzioni per chi non rispetta le regole sul deficit. Forse. Perché, come scrive John Lloyd, editorialista del Financial Times, “la principale motivazione del veto – ovvero, il desiderio di salvaguardare il centro finanziario della City londinese – potrà forse solo ritardare dei cambiamenti ormai inevitabili, dal momento che l´”inner core” del sistema economico potrebbe accordarsi su ampie modifiche da apportare al mercato del lavoro e alle aliquote fiscali, ivi compresa la “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie”.

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