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Stefano Zamagni: la responsabilità sociale delle imprese

da Redazione

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Stefano Zamagni è professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna. Ci ha concesso un’intervista che ruota attorno all’evoluzione del concetto di responsabilità sociale delle imprese.

di Alessandro Carli


Stefano Zamagni è professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, Bologna Center. Si è laureato nel 1966 in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano), e dal 1969 al 1973 si è specializzato all’Università di Oxford (UK) presso il Linacre College. In occasione di “Una mano al Paese”, il progetto lanciato da Agenda 21 San Marino a fine settembre, il professore è salito sul Titano e ci ha concesso una preziosa intervista sull’evoluzione del concetto di responsabilità sociale delle imprese. Oggi infatti si inizia a parlare di responsabilità sociale condivisa, che si erge su tre definizioni: il welfare, l’attività di capitale umano nei processi educativi e la capacità di creare posti di lavoro. Il professor Stefano Zamagni ha poi tracciato il futuro dei giovani, oscillando tra università, rapporti intergenerazionali tra figli e genitori e il ruolo della politica.

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Dopo il concetto di responsabilità sociale delle imprese, oggi è affacciato un nuovo termine: responsabilità sociale condivisa.

“E’ l’ultima novità che arriva dall’Europa: di recente Bruxelles ha adottato le linee-guida di questa nuova concezione di responsabilità, che di fatto rappresenta l’evoluzione della responsabilità sociale delle imprese. In questo modo, l’Europa vuole coinvolgere le imprese nei processi decisionali per quel che concerne lo sviluppo locale. In passato, attraverso un codice deontologico, le imprese si impegnavano a non sfruttare i dipendenti. Con le nuove normative, l’impresa si occupa anche del contesto territoriale. Oggi non basta più far quadrare il bilancio di un’azienda”.

In estrema sintesi, quali sono i concetti-chiave su cui ruota la responsabilità sociale condivisa?

“Sono essenzialmente tre: il welfare, l’attività di capitale umano nei processi educativi e la capacità di creare posti di lavoro. Prendiamo la seconda definizione: se la scuola non riesce a garantire un processo educativo adeguato, è chiaro che le imprese subiranno una serie di ricadute. Ma è parimenti importante anche il terzo concetto: non c’è sviluppo senza i posti di lavoro. bisogna dire ‘stop’ alle delocalizzazioni. Gli anni ’90 sono stati caratterizzati proprio dalla delocalizzazione. Ma appena l’impresa decide di investire e spostare una parte della produzione all’estero, il territorio subisce un forte impoverimento. In Italia, l’esempio della Fiat è lampante: Sergio Marchionne ha tirato troppo la corda, proponendo di portare gli impianti in Croazia. Non è di certo il modo migliore: è come se all’interno di una famiglia il figlio si mettesse a litigare con il padre e, a fine discussione, minacciasse di andare via di casa. E’ chiaro che ci vorrà un po’ di tempo affinché la normativa europea venga recepita: le imprese, per circa tre secoli, sono state abituate a pensare solamente ai conti e al bilancio”.

In questo scenario, qual è il ruolo dei giovani?

“I giovani rappresentano l’anello debole della catena: l’irresponsabilità dei politici è sconcertante. Se guardiamo la composizione della spesa sociale, più della metà è per gli anziani. Se l’infanzia è intoccabile. I giovani sono quelli più penalizzati sia per la mancanza di sbocchi professionali che per la possibilità occupazionale. I giovani sono diventati cinici: hanno perso la speranza per il futuro. Per natura economica, la cultura del cinismo abbassa il tasso di imprenditorialità. Se le prospettive sono basse, ci rimette la società. Si sono create forme di egoismo intergenerazionali: in passato, la catena di alleanza implicita comprendeva il nonno, il padre e il figlio. Per stupidità, i politici non hanno saputo leggere la realtà: non esiste più il vecchio equilibrio sociale. C’è fame di egoismo, e gli anziani finiscono con l’odiare i figli, in un processo di sottrazione di energie. E’ l’effetto, ma non la causa: i giovani sono opportunisti, cercano le strade meno faticose. Non vogliono sforzarsi. La politica dovrebbe mettere alcuni paletti. Dovrebbe dire stop a facoltà come scienze della comunicazione. Bene la facoltà di medicina che è a numero chiuso, ma che dire degli oltre 80 mila avvocati disoccupati che vanno a fare gli amministratori condominiali? La causa è l’incapacità di tener conto delle nuove frontiere tecnologiche”.

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