Home FixingFixing Ascanio Celestini e le sue Storie di “Fabbrica”, viaggio da applausi nell’Italia del 900 (recensione)

Ascanio Celestini e le sue Storie di “Fabbrica”, viaggio da applausi nell’Italia del 900 (recensione)

da Redazione

Celestini_Fabbrica.jpgL’Italia disperata che alza la testa, e pulisce, con il palmo della mano, la polvere delle bombe della seconda guerra mondiale è l’ambientazione di “Fabbrica”, di un grande Ascanio Celestini. Visto e recensito per voi, al festival della cittadinanza democratica di San Marino.

di Alessandro Carli

Celestini_Fabbrica.jpgL’Italia disperata che alza la testa, e pulisce, con il palmo della mano, la polvere delle bombe della seconda guerra mondiale. Nelle orecchie ancora i botti, negli occhi ancora le luci che squarciano la notte. E’ ancora recente il nero del Ventennio, quando il protagonista di “Fabbrica” entra nel suo nuovo luogo di lavoro. Una lettera scritta alla madre apre lo spettacolo che Ascanio Celestini ha portato in scena sulle tavole del Teatro Concordia lunedì scorso all’interno del festival della cittadinanza democratica: una missiva dolcissima (“Cara madre, vi scrivo questa lettera, che è l’ultima lettera che vi scrivo. Ve n’ho scritta una al giorno per tanti anni. Voi mi dicevate: ‘Scrivi, scrivi’ e io ho scritto, per più di cinquant’anni. Una lettera al giorno per cinquant’anni. Ho sempre scritto. Sempre, tutti i giorni. Solo una volta non vi scrissi, cara madre…”) fa da preambolo a un viaggio a ritroso nel tempo, siano a quel lontano 16 marzo 1949, in giorno in cui il protagonista entra in “Fabbrica”. Tra le mura, un mondo meraviglioso di personaggi perduti: il capoturno Fausto, che si chiama come suo padre e come suo nonno; il padrone Paride, e Assunta, la tabaccaia ex operaia, meravigliosa come una Madonna, e che cela in petto un segreto (“C’ha tre zinne una appresso all’altra”). Tutto intorno, gli operai, sfiancati dai turni, ma ligi nel loro dovere di far ripartire lo Stato e, a imbuto, le loro vite. Attorno all’altoforno – elemento totemistico della Fabbrica, in contrapposizione al secondo totem, i tre seni della ragazza – si svolge la carta velina: dietro, tra le pieghe, le riflessioni di chi non ha altre alternative. L’antica fabbrica aveva bisogno di operai d’acciaio e i loro nomi erano Libero, Veraspiritanova, Guerriero. L’età di mezzo ha conosciuto l’aristocrazia operaia con gli operai anarchici e comunisti che neanche il fascismo licenziava perché si rendevano indispensabili alla produzione di guerra. Ma l’età contemporanea ha bisogno di una fabbrica senza operai. Una fabbrica vuota dove gli unici operai che la abitano sono quelli che la fabbrica non riesce a cacciare via: i deformi, quelli che nella fabbrica hanno trovato la disgrazia. Quelli che hanno sposato la fabbrica lasciandole una parte del loro corpo, delle loro storie e delle loro identità.

Cinquant’anni di storia italiana, condensati – con rara precisione – in poco meno di un’ora e mezzo di teatro: c’è il ministro Scelba (“ministro dell’interno, che fa sparà sul popolo, e poi prega il Padreterno”), e Giovanni Berta (“Hanno ammazzato Giovanni Berta, figlio di pescecani, sempre sia benedetto, chi gli tagliò le mani”, cantata da una voce fuoricampo con un bellissimo accento toscano). Novanta minuti di parole, immagini, suggestioni. In apnea, perché il teatro dell’affabulatore romano è fatto anche di ritmo, di frasi che rimbalzano, fanno le capriole di Pulcinella e, quasi per magia, cadono in piedi. Un racconto a mulinello – un marchio di “Fabbrica” – che porta lontano, e ritorna per poi scappare di nuovo.

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