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Sogliano, Lou Reed dedica il concerto ad Amy Winehouse: la recensione

da Redazione

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“Dedico questo show ad Amy Winehouse, una delle più grandi cantautrici degli ultimi anni”. Davanti a oltre 2 mila persone, sabato 23 luglio a Sogliano sul Rubicone, Lou Reed ha scelto le parole alla musica.

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di Alessandro Carli

 

 

SOGLIANO – “Dedico questo show ad Amy Winehouse, una delle più grandi cantautrici degli ultimi anni”. Davanti a oltre 2 mila persone, sabato sera Lou Reed ha scelto le parole alla musica: troppo fresca la notizia della morte dell’artista inglese, troppo grande la sensibilità dell’ex Velvet Underground, che quasi per rispetto verso la cantante britannica, non ha messo in scaletta “Perfect day” (in scaletta, la canzone non c’era. Però è bello immaginare che non l’abbia volta mettere nemmeno nei bis. I giorni perfetti sono altri. Sono quelli dei sorrisi dei bambini, del sole che esce dalle nuvole dopo una giornata di pioggia. O quando nasce un fiore. Non quando se ne va una voce, o quando un pazzo nazionalista ammazza quasi 100 persone nella cristallina Oslo). Sin da subito è svanita l’ombra della bonsai-performance che Lou Reed ha tenuto recentemente a Taormina (meno di un’ora di concerto, con la scaletta potata e ridotta al minimo sindacale. E con una marea di fischi). Musica doveva essere, e musica è stata: oltre un’ora e 45 minuti di grande concerto, una cavalcata in groppa a 45 anni di musica (l’album con la ‘Banana’ è del 1967), fatta da rivisitazioni, brani storici e pezzi meno conosciuti, cuciti assieme da quella sua voce che, per ammissione di una donna presente in piazza Matteotti, “ha una sensualità selvaggia che ti spoglia”. La genialità del concerto di Lou Reed va ricercata in una nota: quella della luce. Il cantautore infatti ha dato moltissimo spazio ai giovani musicisti della sua band, lasciando spazio ad assoli e arrangiamenti davvero indovinati. “Sunday morning” è stata forse la punta di diamante: chitarra (lui), violini e battute rallentate, quasi una ninna nanna (come lo è anche l’originale, però questa versione dal vivo è strepitosa), prolungata e sottile, arpeggiata. A canzoni ‘cariche’ – da ballare e saltare – hanno fatto da contraltare brani più lenti, alcuni poco conosciuti al pubblico. A chi si aspettava una remake degli anni purpurei (quelli di Andy Warhol, di “All tomorrow’s parties”), Lou Reed ha risposto proponendo una trasversalità davvero unica:  “Who loves the sun”, “Senselessly cruel”, “Venus in furs”, “Femme fatale”, “Pale blue eyes”, una deliziosa “Sweet Jane” portata avanti dal sax pieno di fiato e polmoni, una graffiante e movimentata “Charley’s girl”. Nessuna nostalgia per i Sixties: Reed è proiettato verso il futuro, che aggredisce musicalmente con una grandissima energia e con un magnetismo che inchioda. Sul palco è piccolo, ma grande è la sua musica: dita lente sulle corde della chitarra, che poi accelerano, mettono il kers, e viaggiano, duettano, dialogano. Giovani con la t-shirt di “Transformer”, i più grandi con la banana gialla di Warhol. In un clima di festa, senza risse né avvinazzati: era la festa della musica, e davanti a Reed devi stare composto ed educato, e assorbire come una spugna quello che esce dalle sue corde vocali. E’ una forma di rispetto. Di necessità. Di voler ascoltare e vedere dal vivo quel piccolo grande uomo che suona, e canta, e che sa portarti alla London degli anni ’60. E’ finita così, la passeggiata di Lou Reed a Sogliano. Con un dolcissimo “Good night, Amy”. Tocca immaginarlo detto con la sua voce, quel dannato “Good night, Amy”. Goodbye, Amy. Goodbye, dalla tua londinese Camden.

 

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