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Gli Stati Uniti d’America a un passo dal primo default

da Redazione

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Il Presidente degli USA cerca un accordo con i Repubblicani per la riduzione del debito. Il nodo da sciogliere è quello dell’aumento delle tasse. Si punta a 2 mila miliardi di dollari.

 

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di Saverio Mercadante


 

“Non possiamo accettare che il prezzo del risanamento venga pagato per intero dai ceti medi e dagli anziani”, urlano i democratici di Barack Obama di fronte al pericolo di un possibile default del loro paese. Anche in questo, Stati Uniti ed Europa sembrano vivere la medesima crisi sotto il tetto di una globalizzazione che smorza ogni differenza di qua e di là dell’Atlantico. Un gigantesco debito pubblico spinge il presidente americano a trovare al più presto nei prossimi giorni un difficilissimo accordo con i repubblicani. Il nodo da sciogliere sono un possibile aumento delle tasse. Che gli eredi dei Bush vedono come il fumo negli occhi. L’amministrazione americana ha dovuto mettere da parte l’ambizioso programma proposto nei giorni scorsi che prevedeva la riduzione del debito di 4.000 miliardi di dollari in dieci anni: un quarto di questa cifra doveva provenire da incrementi delle entrate. Ma lo speaker della Camera, John Boenher, capo della maggioranza repubblicana, ha annunciato che non perseguirà più l’ipotesi di un ampio piano di riduzione del deficit. Si punterà a una misura più contenuta sui 2.000 miliardi di dollari che non prevede un aumento delle tasse. Il 2 agosto rimane la data limite entro la quale evitare il default, fissata a suo tempo dallo stesso ministro del Tesoro Tim Geithner. A giugno l’agenzia di rating Moody’s ha lanciato un chiarissimo avvertimento: se le negoziazioni in corso non porteranno ad un buon accordo il rating di tripla A degli Usa rischierà un abbassamento. Il pericolo molto, molto, concreto è quello di uno catastrofe globale che ha costretto anche il nuovo direttore del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde a intervenire con toni quanto mai allarmati: “Sarebbe uno shock globale, non voglio pensare neanche per un secondo a un default degli Usa”. Troppo stato in Europa, troppe spese militari, troppi interventi di salvataggio e troppi sconti sulle tasse, negli Stati Uniti, hanno determinato nel vecchio mondo del capitalismo avanzato, economie deboli, con poco sangue, a rischio di infarto, proprio ora che ci sarebbe un gran bisogno di pompare nelle vene dei sistemi paesi grandi dosi di liquidità e incentivi per rilanciare lo sviluppo. Ma che Europa e Usa siano messe così male non è una buona notizia per nessuno, anche per quei Paesi emergenti che ormai producono e vendono soprattutto per l’Asia e l’America Latina. Ma che dipendono da mercati finanziari ancora egemonizzati dall’Occidente. Senza dimenticare che banche e finanza di Wall Street sono nuovo a rischio e le bolle speculative premono su una Cina che corre il pericolo di una gigantesca inflazione. Non vi è dubbio che Obama sia in grande difficoltà e che la lunga corsa verso le prossime presidenziali che già lo vedevano quasi sicuro vincente saranno un campo minato per l’ex superstar della politica mondiale. E l’andamento del mercato del lavoro a giugno, appena 18 mila posti in più, sono un nero presagio. Anche economisti da sempre piuttosto vicini ai democratici sono molto critici sui due anni e mezzo della presidenza di Obama. Come il premio Nobel Paul Krugman che mette in dubbio addirittura la volontà dell’amministrazione di risolvere i giganteschi problemi dell’economia americana. Troppo ottimismo, innanzitutto pensando che l’economia americana avrebbe trovata dentro se stessa gli anticorpi della crisi. Non sono certo bastati le politiche di contenimento consistite di fatto nei tagli alle tasse per le piccole e medie imprese e per la classe media e le sovvenzioni alle famiglie disagiate e ai governatori locali sotto pressione. “Questi aiuti possono essere serviti a mitigare il tracollo, ma non era il programma di stimolo all’economia promesso dalla Casa Bianca”, ha affermato Krugman. La spinta dell’amministrazione è mancata proprio nell’accendere un new deal incentivato da un grande piano di lavori pubblici, che nonostante i ripetuti annunci non si è mai visto. Rispetto al 2009 ci sono mezzo milione di dipendenti statali in meno. “Dov’è questo fantomatico esercito di lavoratori pubblici?”, si è chiesto Krugman nel suo commento. Secondo altri analisti la disoccupazione ulteriormente cresciuta al 9,2% arriva, non come il risultato dell’eccessiva presenza dello Stato in economia, come affermano i repubblicani, ma proprio dalla cancellazione di un milione di posti di lavoro da parte delle amministrazioni locali e federali. E Krugman contesta Obama anche su un altro delicatissimo tasto: “L’intervento del governo avrebbe potuto fare un’enorme differenza, sull’area dei possessori indebitati dei mutui, ma non è stato fatto pressoché nulla”. La causa di questa assenza è stato il terrore dell’aumento dei tassi d’interesse del debito pubblico Usa. Due anni fa il Wall Street Journal dichiarò che i tassi sarebbero presto saliti alle stelle. Da allora, gli avvertimenti continui sono stati usati per attaccare qualsiasi spesa che creasse occupazione. “In realtà, le nozioni economiche di base – ha affermato nei giorni scorsi l’economista – ci dicono che i tassi d’interesse restano bassi nei periodi di depressione. E così è stato: al momento dell’allarme del Wsj, il tasso dei bond Usa a 10 anni era al 3,7%. Alla fine della scorsa settimana era al 3,03%”. La discesa verso gli inferi del primo default della storia americana pare non avere freni.

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