Per capire da che parte soffi il vento dell’economia mondiale, basta guardare alcune cifre di uno dei settori primari del made in Italy: il vino. Quattro numeri da tenere bene a memoria, divulgati in occasione del Vinitaly da Coldiretti: 3,93 contro 3,89, ossia i miliardi di euro del valore delle vendite all’estero contro quelle interne; 108, la percentuale di crescita del valore del vino italiano in Cina, 65 quella in India e 58 in Russia, i principali paesi emergenti del gruppo Bric, dove le etichette italiane stanno cominciando ad affermarsi. Quest’anno, infatti, per la prima volta nella storia il valore delle esportazioni ha superato quello del mercato interno, in concomitanza con il calo del 4,8% negli acquisti familiari e alla salita degli Stati Uniti sul podio più alto tra i paesi consumatori di vino, davanti a Francia e Italia. Se questo trend si confermerà l’Italia sarà presto un paese con una tendenza ad esportare più di quanto consuma, secondo Coonfcooperative, con aumento del fatturato da export del 18% nel 2010 rispetto al 2009. E sei produttori su dieci in Italia possono definirsi esportatori abituali. Una tendenza che ha spinto alcuni produttori di casa nostra a mettere le radici all’estero. Alcuni persino in Estremo Oriente. Come la Moncaro di Montecarotto (Ancona) che, forte dei risultati delle esportazioni del verdicchio (tra i tre vini italiani nel podio dell’export, per numero di bottiglie, assieme a pinot grigio e soave) ha realizzato due joint venture, in Cina per la distribuzione, e in India, dove produce vino in partnership con una società locale, fornendo know how, macchinari e consulenza made in Italy. E c’è anche chi decide di destinare tutta la produzione al mercato estero: come ha fatto Amastuola, azienda di Massafra (Taranto), che vende in Germania, Canada, Svezia e Norvegia vino sfuso o in bottiglia (tra l’altro utilizzano il tappo a vite, snobbato in Italia e Francia quanto apprezzato nel Nord Europa).