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Addio a un altro “American dream”

da Redazione

Prodotti a basso costo, copiare, copiare, e ancora copiare. Altro che fuga all’estero, i migliori ricercatori cinesi che hanno fatto la loro fortuna negli Stati Uniti ora inizieranno una nuova carriera in patria.

di Saverio Mercadante

Prodotti a basso costo, copiare, copiare, e ancora copiare. E’ un’altra storia, una delle possibile narrazioni della super potenza del terzo millennio. E’ una crescita talmente tumultuosa e talmente convincente che ha consentito un’altra pesca miracolosa: quella del ritorno dei cervelli in Patria. Altro che fuga all’estero, la Cina ha tali capacità di attrazione che i migliori ricercatori cinesi che hanno fatto la loro fortuna o che studiano negli Stati Uniti ora ricominciano o inizieranno una nuova carriera in patria. Anche perché gli americani c’hanno messo del loro per rimandarli a casa con le misure anti-immigrazione. Insomma, la Cina ha già avviato e sta intensificando gli sforzi per attirare in patria i migliori cervelli in fuga, per diventare come indicato nel Piano per lo sviluppo della scienza e della tecnologia 2006-2020 – una nazione leader dell’innovazione.

Da un sondaggio svolto qualche tempo fa alla Duke University, alla Berkeley e ad Harvard su 229 studenti cinesi, solo il 10% intende stabilizzarsi negli Stati Uniti. Entro il prossimo decennio la Cina, secondo gli analisti, supererà gli Stati Uniti nella capacità di trasformare la sua ricerca e sviluppo in prodotti e servizi. La previsione è del Georgia institute of technology statunitense. Altro primato annunciato: per il numero di lavori scientifici pubblicati il Dragone è secondo solo agli Usa (120mila articoli contro i 350mila) e ha il più alto numero di studenti (25 milioni) iscritti in istituti e università di qualsiasi altro paese. Ma portiamo qualche dato del declino americano nei confronti delle tigri asiatiche.

Il Boston Consulting Group multinazionale di consulenza di management, uno dei leader mondiali in strategie di business, presente in 40 paesi, ha stilato una classifica dell’innovazione: USA all’ottavo posto. In cima c’è Singapore.

Per la Information Technology and Innovation Foundation (Itif), che misura i progressi tecnologici con le opportunità economiche tese a migliorare la qualità della vita, gli Stati Uniti risalgono al sesto posto.

Secondo The Atlantic Century nel rapporto dell’ITIF dedicato all’innovazione negli ultimi dieci anni al vertice della classifica ci sono Cina e Singapore. Gli Usa sono al posto numero 38.

Gli indicatori per il punteggio: numero di laureati e ricercatori, investimento privato e pubblico in ricerca e sviluppo, infrastrutture tecnologiche, commercio, incentivi fiscali e produttività.

Secondo i due istituti di ricerca negli ultimi dieci anni sono diminuiti il numero dei brevetti, il numero di giovani statunitensi che si laureano in materie scientifiche, meno della Francia, e i fondi governativi e aziendali stanziati per la ricerca e lo sviluppo. Soprattutto quelli destinati al campo delle energie pulite e rinnovabili, settore economico di rilevanza strategica dal quale stanno emergendo le maggiori innovazioni tecnologiche.

Determinante in questo sorpasso per Singapore, Corea del Sud, Canada e Svezia il cambiamento di leggi e sistemi per essere più competitive; gli Stati Uniti sono al palo. Anche la scuola superiore batte in testa: pochi diplomi in ambiti dedicati all’economia della conoscenza.

Il declino dell’America è più evidente nell’alta tecnologia. Specialmente dove Obama vorrebbe cambiare l’economia americana: solare, eolico. E la produzione delle batterie. Secondo la banca d’investimento Lazard Frères, il più grande produttore di turbine eoliche del mondo è l’americana General Electric.

Ma, tra le prime 10, le altre nove società sono sparse per il mondo: Germania (Nordex), Danimarca (Vestas), India (Suzlon), Spagna (Acciona), ecetera.

La situazione nel solare è simile: le società statunitensi occupano due posti nella top ten (First Solar e SunPower), ma il Giappone e la Cina occupano entrambe tre posti. Otto dei 10 principali produttori di batterie al mondo hanno sede in Giappone. Solo la Johnson Controls è negli Stati Uniti. Ma l’’Oriente sta sviluppando un’altra grande forza che ha permesso di reggere la crisi dei suoi importatori: lo sviluppo dei mercati interni. Più forti di quello che si poteva immaginare. Anche così si sono create le premesse delle nuove supremazie. La Cina, ha dichiarato che il 60 per cento del suo PIL sarà legato alla scienza e tecnologia nei prossimi due decenni.

Secondo un rapporto della Fondazione Kauffman la ricerca farmaceutica ha visto il 5,5% delle domande di brevetto firmate India e l’8,4% firmate Cina. Numeri piccoli, per ora, ma tendenza chiarissima.

Secondo l’Itif, nei prossimi cinque anni la spesa cleantech, per le tecnologie pulite, delle tigri asiatiche (con 509 miliardi di dollari contro i 178 statunitensi) supererà di tre volte quella statunitense.

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