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Quando San Marino salvòl’unità  d’Italia

da Redazione

Correva l’anno 1849, Garibaldi in rotta si salvò solo grazie ai sammarinesi. La storia è sempre quella: un pizzico di umanità e molta furbizia. Anticipazione (celebrativa) dal nostro settimanale San Marino Fixing, domani in edicola.

 

Quando San Marino salvò Garibaldi. E l’Unità d’Italia

 

di Loris Pironi

SAN MARINO – Il principio è assoluto e assodato: la storia non si scrive con i “se”. Tuttavia è innegabile che una rilettura col senno di poi ci porta a guardare con particolare interesse i bivi davanti a cui si sono trovati i personaggi che questa storia, la storia con la ‘S’ maiuscola, l’hanno scritta.
17 marzo 2011, l’Italia unita celebra l’anniversario numero 150 dell’Unità d’Italia. Per questo oggi legittimamente ci domandiamo cosa sarebbe successo alla tribolata penisola di un secolo e mezzo fa se non ci fosse stato Garibaldi. O meglio se l’Eroe dei due Mondi, dodici anni prima del decantato 1861, fosse stato fatto prigioniero dagli austriaci.
Lo raccontiamo perché – oggi più che mai – è giusto e doveroso rendere merito agli uomini e alle donne che si prodigarono per salvare Giuseppe Garibaldi e il suo esercito in rotta, a pezzi, inseguito e quasi raggiunto in una fuga portata all’estremo limite della sopportazione umana, deluso dalla mancata sollevazione popolare che aveva auspicato nella sua lunga marcia da Roma verso nord.
Se gli austriaci avessero catturato Garibaldi, il finale di questa storia sarebbe stato scritto con il sangue: per il condottiero nizzardo, l’impiccagione era già scritta.

 

Unità d’Italia: il prequel
La nostra storia dell’unità d’Italia – legittimamente, come abbiamo dimostrato – la facciamo partire con un prequel. Il drammatico 1848 (“facciamo un quarantotto, lo diciamo ancor oggi) è appena stato lasciato alle spalle, l’Europa è in pieno fermento, la caduta di Napoleone ha trasformato l’Austria, il grande impero conservatore così forte e presente anche in Italia, nella potenza egemone del continente. Non c’è pace per nessuno, nemmeno per il Papa, scacciato da Roma nel grande “laboratorio” della Repubblica Romana. Che brucerà come un cerino, troppo rapidamente ma non senza aver fatto luce su un’idea, quella di un’Italia unita, indipendente.
A quell’esperimento liberale partecipa anche Giuseppe Garibaldi: sua la guida della “Prima legione italiana” con il compito di difendere la neonata Repubblica. Il progetto politico non ha sufficiente costrutto, o forse i tempi non sono ancora maturi. Fatto sta che Garibaldi con i suoi volontari nulla può contro l’esercito interforze – oggi lo chiameremmo così – composto principalmente da militari transalpini ed è costretto ad abbandonare Roma.
Ma il Generale non si arrende. Decide che non vuole cadere nelle mani del nemico, che il suo tempo non è ancora giunto. È al comando di un manipolo di 4 mila uomini, se Roma è caduta c’è la Toscana, terra da sempre pronta ad infiammarsi, anche per un’idea: lì solo il nome di Garibaldi, la sua figura già quasi mitologica, in sella al suo destriero, può provocare un’insurrezione. Anche questa volta tuttavia le aspirazioni vengono deluse. Ma c’è ancora Venezia, già, Venezia. Ancora resiste all’offensiva austriaca. Venezia non si arrende, basta attraversare l’Appennino, raggiungere la costa adriatica ed imbarcarsi. Laggiù sicuramente, Garibaldi potrà essere utile, potrà trovare appoggi, rinforzi. Ma gli austriaci non danno tregua alle truppe garibaldine. Le braccano, le martellano ai fianchi, capiscono l’intenzione del condottiero e tentano di chiudere la via che porta al mare, alla salvezza, a nuove sollevazioni popolari. Della Prima legione italiana non resta quasi più nessuno. I soldati sono stanchi, delusi, feriti. Molti non hanno più uno straccio addosso che assomigli ad un’uniforme, hanno gettato le armi per viaggiare più leggeri. Contando le persone raccattate per la strada, a questo punto, Garibaldi può contare su circa tremila uomini. Ma non ha più un cannone, e neanche un vero e proprio esercito. È in rotta, dicevamo, quasi senza possibilità di scampo.
Siamo alla fine di luglio del 1849, il 31, quando Garibaldi e i suoi uomini più fidi giunge in vista delle pendici del Monte Titano. Già allora San Marino era uno staterello libero, orgoglioso, indipendente. Anche se non c’era più Napoleone, l’illustre protettore, aveva mura ben robuste e armi per difendere il proprio fazzoletto di Terra di Libertà. Garibaldi ragiona, si convince che usufruire della sovranità di San Marino per spiazzare gli austriaci che gli stanno alle costole può essere una buona idea: varcare la soglia della piccola Repubblica sarebbe utile per guadagnare quel tempo indispensabile per trovare una via di scampo e salvare la pelle, la sua e quella dei suoi uomini.

Alle porte di San Marino
Alle porte di San Marino, dove gli uomini sono già all’erta, evidentemente informati del movimento nelle vallate circostanti, si presenta una piccola rappresentanza del generalissimo. A guidarla è Ugo Bassi, sacerdote, dotato di insospettabili doti di oratore, patriota, aiutante di campo di Garibaldi. Ancora non lo sa, ma quelli saranno gli ultimi giorni della sua breve e coraggiosa vita immolata ad un ideale più alto.
Parla a nome di Garibaldi, si rivolge alle autorità sammarinesi, al Capitano Reggente Domenico Maria Belzoppi, i cui sentimenti liberali sono noti a tutti. Chiede asilo dentro le sicure mura della Repubblica, chiede aiuto per i suoi compagni di ventura, cibo, un ristoro. Il momento è drammatico ma Belzoppi risponde no. Non si può fare. Non si può mettere a repentaglio la libertà di San Marino sia pure di fronte alla richiesta di un simile ufficio umanitario. E poi a che cosa servirebbe? Certo, acqua e viveri i sammarinesi, generosamente, li avrebbero messi a disposizione dei garibaldini, ma di varcare l’arco della Porta di San Francesco non se ne parla.
Infine arriva lui, Garibaldi, a cavallo. Fiero e altero malgrado la drammatica situazione. Chiede di essere ricevuto dai Capitani Reggenti, promette di sciogliere la sua legione in cambio dell’ospitalità. Prega i sammarinesi di intervenire diplomaticamente per scongiurare uno scontro armato che, sicuramente, ben difficilmente potrebbe avere esito positivo. A questo punto Belzoppi acconsente, apre la porta ai rifugiati, la popolazione si attiva per fornire cibo agli affamati, bende per i feriti, persino un po’ di vino. Garibaldi è attento che i suoi rispettino l’ospitalità offerta dai sammarinesi.
“Noi siamo sulla terra di rifugio e dobbiamo il migliore contegno possibile ai generosi ospiti. In tal modo avremo meritata la considerazione alla disgrazia perseguitata”, scrisse Garibaldi nel suo ordine del giorno. “Militi, io vi sciolgo dall’impegno di accompagnarmi; tornate alle vostre case, ma ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nel servaggio e nella vergogna”.

 

Doppio gioco diplomatico
Prima ancora che si decidesse se concedere asilo a Garibaldi, Belzoppi aveva inviato un’ambasciata, composta da Giovanni Battista Bonelli, Segretario di Stato, e da Giovanni Battista Braschi Tenente della Milizia, a Rimini presso il Generale Maggiore austriaco De Hahe e all’Arciduca Ernesto accampato presso Fiorentino. L’arciduca è furibondo: pretende la consegna di Garibaldi e chiede alla Repubblica di chiudere il Generale fuori dalle proprie mura per poterlo finire senza pietà. La trattativa prosegue e si arriva alla promessa che gli austriaci non avrebbero attaccato per primi. Tra le richieste viene avanzata anche quella di costringere Garibaldi a giurare di trasferirsi definitivamente in America, con Anita.
I patti sono respinti sdegnosamente da Garibaldi, che si prepara alla battaglia, ma nel frattempo continua a cullare l’idea originaria, quella cioè di sfruttare questa trattativa per prendere tempo e riuscire a mettere a punto una rocambolesca fuga. Verso le 11 di sera Garibaldi chiama i suoi migliori ufficiali e pochi fidi e gli svela il nuovo proposito: sottrarsi ai patti col nemico e fuggire ancora. “A chi vuol seguirmi io offro nuove battaglie, patimenti, esigli; patti collo straniero mai”. Parole affidate alla storia, le sue. Sono circa 150 a seguirlo, forse meno. C’è la sua Anita, incinta e febbricitante, c’è Ugo Bassi. Ci sono Ciceruacchio, Forbes, Ceccaldi, Liveriero e Livraghi. Poco dopo la mezzanotte, preceduto dalla guida sammarinese Nicola Zani, operaio, il gruppo non visto passa tra le linee nemiche, scende dal Titano per l’unico sentiero di montagna ancora aperto, attraversa a guado il fiume Marecchia. Scollina a Montebello, cala nella vallata dell’Uso, giunge a Sogliano, Longiano, Gatteo e alla fine, dopo una giornata intera di cammino, arriva finalmente sulla spiaggia di Cesenatico verso le dieci di sera. E’ il primo agosto. Qui requisisce tredici bragozzi chioggiotti e s’imbarca, durante la notte, alla volta di Venezia. Ma le cose andranno diversamente.

 

Caos a San Marino
La sorpresa per la fuga notturna di Garibaldi è indicibile. Gli austriaci accusano il Governo sammarinese di aver favorito la fuga del Generale. E poi se non c’è Garibaldi, ci sono i garibaldini, da lui abbandonati, circondati da uno spiegamento di forze davvero terribile. La folla si raduna alla porta della Repubblica, Domenico Maria Belzoppi anticipa le mosse dei garibaldini e previene i tumulti mettendo guardie armate ad impedire un ingresso forzoso dentro le mura. Assicura agli ufficiali l’intenzione di fornire un salvacondotto a tutti ma solo dietro consegna delle armi, com’era stato pattuito con Garibaldi. Per tutti il sogno di veder l’Italia unita in questo momento va in frantumi. Ma per lo meno, con una moneta in tasca e un lasciapassare, si garantiscono loro salva la vita, e si rende possibile il ritorno a casa, incolumi.

 

L’epilogo
Il doppio gioco sammarinese ebbe buona sorte: gli austriaci accettarono la versione dei fatti che sarebbe stato impossibile, per i sammarinesi, fermare Garibaldi e comunque di opporsi all’eventuale occupazione armata dei garibaldini. Alla fine gli austriaci rispettarono l’autorità sammarinese e si dedicarono anima e corpo all’inseguimento di Garibaldi e i suoi, passando per le armi tutti i fuggiaschi in rotta su cui riuscirono a mettere le mani.
Il resto è cosa nota: la trafila garibaldina in terra ravennate, la morte di Anita, lo scampo in Liguria dopo un secondo scollinamento appenninico. E poi l’esilio in America, nel 1850. Preludio al suo trionfale ritorno nella Penisola, allo Sbarco dei Mille. All’Unità d’Italia.

 

Fonti: “La repubblica di San Marino” (1903) di Corrado Ricci. “Il trafugamento di Giuseppe Garibaldi dalla pineta di Ravenna a Modigliana ed in Liguria, 1849” (1907) di Giovanni Mini. “Garibaldi” (1889) di Giuseppe Guerzoni.

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