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Quando la PFM trasformò De André in un rocker

da Redazione

Intervista di San Marino Fixing a Franz Di Cioccio, storico frontman della Premiata Forneria Marconi, a Rimini, nei giorni scorsi, in concerto con la sua band. Di Cioccio racconta Fabrizio De André, e la famosa tournée del 1979: “Fabrizio ci venne a vedere in un concerto, ci vide suonare e rimase colpito da quella che era la capacità di Pfm di stare assieme, soprattutto di immaginare musica”.

di Alessandro Carli

 

Il 1979 fu l’anno dello storico tour Fabrizio De André-PFM. Quello spettacolo diventò poi un doppio album, ancora oggi pietra miliare nella discografia della canzone d’autore italiana. In omaggio a Faber e dopo lo straordinario successo delle scorse tournée PFM ha deciso di suonare ancora, con gli arrangiamenti originali, le canzoni più significative di quell’evento. La Premiata Forneria Marconi ha fatto tappa al 105 Stadium di Rimini a fine febbraio. Per l’occasione, abbiamo sentito Franz Di Cioccio, frontman e leader del gruppo. Che ci ha raccontato com’è nata quella miracolosa alchimia. “Spesso non ci si rende conto del ruolo che si gioca nel momento in cui si ‘gioca’. Si fa quello per cui ci si sente predisposti, cercando di dare vita a tutti quei sogni e utopie che ci si porta dentro fin da ragazzi. Il rock italiano, quando la PFM era ancora ‘I quelli’, non esisteva ancora e la musica italiana poteva contare solo su cover o su alcuni buoni autori ed interpreti, come Battisti, e poeti cantautori dalla forte personalità come De André, che proseguiva la tradizione della cosiddetta scuola genovese”. Di Cioccio poi spiega l’incontro con FdA. “Noi, come ‘I Quelli’, lo incontrammo al tempo de ‘La buona novella’. Fabrizio incarnava ciò che di poetico ognuno di noi si portava dentro. Le sue storie erano frustate ai benpensanti, erano la lente per guardare in fondo alle nostre coscienze, erano lo specchio dove erano riflessi anche i destini degli ultimi e dei più emarginati. Fabrizio era capace di rimodellare la realtà sofferente e farla diventare poesia. Come musicista ha sempre cercato una sponda collaborativa insieme ai suoi compagni di viaggio, con l’idea di non essere schiavo di mode e modi, ma seguendo un percorso più vicino ai canoni dell’avventura e della curiosità. La non ripetitività nell’arte è sempre un buon esercizio per salvaguardare la creatività. Bisogna sempre spingere là dove ci sono zone inesplorate, dove si potrebbero incontrare difficoltà, per poter arrivare a scoprire qualcosa di eccitante”. La PFM e il tour del 1979. “L’idea venne a me. Ebbi l’idea di mettere insieme il cantautore ed il gruppo, un’idea assurda. Quindi ne parlai a Fabrizio. Lui aveva una particolare inclinazione a fare le cose complesse e difficili; più un progetto suonava difficile, più lui si appassionava. Tutti gli dicevano: ‘Guarda mi sembra una cosa azzardata, sai la Pfm… questi suonano forte, fanno rock, tu canti con la tua chitarra, ti schiacciano assolutamente, non farlo’. Ma lui pensava: ‘Se mi dicono di non farlo, vuol dire che è pericoloso; se è pericoloso allora lo faccio’. Fabrizio ci venne a vedere in un concerto, ci vide suonare e rimase colpito da quella che era la capacità di Pfm di stare assieme, soprattutto di immaginare musica, di essere sul palco, di giocare con gli strumenti con una tale padronanza da farlo sentire rassicurato per quello che poteva riguardare la parte musicale… andai diverse volte da lui, mi recai anche in Sardegna, sentii la casa discografica, mettemmo a punto il progetto… e nacque il disco. Mi ispirai ad alcuni ricordi e riflessioni della nostra ultima tournée americana: la voglia di sperimentare la nostra capacità espressiva a servizio di canzoni e poesie, così le chiamo io, per dare ai colori della musica tutto il suo splendore. In Usa erano frequenti le collaborazioni, Dylan con The band, Jackson Brown con gli Eagles, insomma un modo di sublimare forme di espressioni musicali in un unico affresco. Noi, artigiani della musica, ed il poeta cantante. Mi sembrava la più bella cosa per chiudere il decennio di utopia. Versi poetici, ma taglienti come lame, in uno scorrere di musica dolce e robusta, dove ogni colore incide direttamente sulle parole, facendole diventare, con la voce di Fabrizio, uno splendido affresco musicale. Non fu facile, ma il tempo ha saputo ricompensare la nostra e la spregiudicatezza di Faber”. Faber e il suo timbro. Unico, come conferma Di Cioccio. “Lui era assolutamente un grande cantore, un grandissimo poeta… non dimentichiamo che aveva una voce incredibile, con un timbro, un tono che ti inchiodava. E intorno c’era la leggerezza dei suoni che facevano decollare, volare la musica molto più in alto perché non era legato alla semplicità scarna di una chitarra da accompagnamento, tipica dell’epoca ma che finiva per essere riduttiva; perché la musica era penalizzata, perché c’era mancanza di organico, c’era carenza di fantasia”.

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