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Dall’Egitto alla Tunisia L’esercito calmieratore

da Redazione

L’influenza di Barack Obama: dagli Stati Uniti d’America un miliardo di dollari annui per aiuti militari ed economici. La rivolta è stata scatenata anche dall’aumento del prezzo del grano e quindi del pane. Nei giorni scorsi il Daily Telegraph ha scoperto un documento piuttosto interessante in mano ad Assange.

di Saverio Mercadante

 

Se Obama controlla l’esercito, Barak controlla l’Egitto. Se Obama controlla l’esercito, Barack controlla la Tunisia. Se versa quasi un miliardo e mezzo di dollari l’anno tra aiuti militari ed economici può controllare la transizione egiziana verso le nuove elezioni. Se l’esercito sia a Tunisi che al Cairo rifiuta di sparare sulla folla (lo hanno fatto invece i poliziotti di Mubarak) hanno di fatto legittimato l’opposizione. E qui ci viene in soccorso il tesoretto di Wikileaks. Nei giorni scorsi il Daily Telegraph ha scoperto un documento piuttosto interessante in mano ad Assange. Le carte rivelavano come nell’autunno del 2008 il Dipartimento di Stato avesse invitato a Washington diversi blogger e oppositori di Mubarak, intenzionati a creare un’Alleanza democratica: aveva come obiettivo finale quello di provocare un cambiamento di regime nel 2011, prima delle elezioni presidenziali. Se a Tunisi, paese piccolo e non strategico, la scommessa di un cambio di regime pilotato può essere vinta, al Cairo i rischi sono molto più grandi. Bibi Netanyahu, a capo di Israele, tace, non commenta, e i giornali, dopo le dimissioni di Mubarak, lo hanno ancora descritto come un uomo saggio. Israele trema in queste ore: per un trentennio aveva contato sul Cairo per garantire la propria sicurezza nazionale. E nelle migliaia di commenti sulla crisi egiziana nessuno ha fatto riferimento a un’altra grande rivoluzione che a suo tempo venne salutata da tutto l’occidente come un nuovo rinascimento democratico dopo l’abbattimento dello scià Reza Pahlevi: la rivoluzione di Khomeini. Sappiamo quanta democrazia abbia poi avuto quel Paese. L’Egitto come l’Iran? Difficile, molto difficile. Anche se in Egitto i Fratelli Musulmani sono molto popolari e in passato hanno dimostrato di saper muovere le piazze, all’occorrenza usando le armi. In Tunisia invece l’influenza dei fondamentalisti islamici è impalpabile. Sul Washington Post, Charles Krauthammer ha ricordato che per decenni gli Stati Uniti d’America hanno usato ogni strumento a loro disposizione, coperto o palese, finanziario o diplomatico, legale e a volte perfino illegale, per aiutare i partiti democratici a tenere i comunisti lontani dal potere. Sarebbe coerente ora replicare quel modello nei confronti di quei nuovi partiti totalitari, dai Fratelli musulmani ad Hamas a Hezbollah, che minacciano di seguire il principio antidemocratico di “una testa, un voto, una sola volta”. Il presidente Obama può essere soddisfatto – negli ultimi giorni si era speso apertamente per le dimissioni del rais egiziano Hosni Mubarak – ma sa bene di avere a che fare con un’America preoccupata, che guarda con preoccupata al più grande paese del mondo arabo. E sa anche che l’Amministrazione in questi giorni non si è certo distinta nell’armonizzazione delle sue dichiarazioni. L’Esercito egiziano intanto ha dichiarato che tutti i contratti internazionali saranno rispettati. Ma anche la Cina teme il vento della rivoluzione egiziana, non tanto per gli accordi commerciali fra i due Paesi (Pechino ha, infatti, venduto armi per decine di milioni di dollari al regime di Hosni Mubarak) quanto per le ripercussioni che potrebbe avere nel Paese. Già si parla sul web di una nuova Tien an Men egiziana. Come ha spiegato il Wall Street Journal, le manifestazioni in Egitto, che hanno raggiunto i 2 milioni di partecipanti, hanno suscitato una grande curiosità tra gli internauti cinesi, anche perché i principali mezzi d’informazione si sono limitati a dare scarse notizie. In Cina è stata data una versione sbiadita della rivolta egiziana e in Rete è impossibile cercare la parola “Egitto”. Non è la prima volta che le autorità cinesi ricorrono a queste forme di censura preventiva. Lo avevano già fatto in occasione delle “rivoluzioni colorate” che nel 2003-2005 hanno attraversato l’ex Unione sovietica, e addirittura nel 2009, quando l’Iran ha vissuto giorni di sanguinose proteste. Nello stesso anno, in certe regioni del Paese asiatico internet è stato oscurato del tutto. E chi c’era dietro le rivoluzioni colorate? La Rivoluzione arancione di Kiev? E quella Rosa contro Shevardnadze? La protesta degli studenti di Belgrado che costrinse Milosevic alla fuga? I media esaltarono la rivincita del popolo. Oggi, però, si è venuti a conoscenza – documenti alla mano – che quelle rivolte non furono del tutto farina del sacco locale. Avevano alle spalle l’appoggio meticoloso e professionale di società private di pubbliche relazioni, che agivano per conto del Dipartimento di Stato americano. Tutto torna? Forse. C’è un fattore che sembra sottostimato dall’Occidente ed è il costo della vita. La cartina di tornasole è il grano, l’alimento base per la popolazione. L’Egitto importa il 50% di quello che consuma: arriva dall’Ucraina e dalla Russia, dove i prezzi sono saliti esponenzialmente nell’ultimo anno. A un certo punto gli egiziani non potevano più permettersi di comprare il pane, e questo ha fatto saltare il tappo.

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