Ma insomma perché la Cina non vuole rivalutare la sua maledetta monetaccia, il “giovanni” (così per scherzo gli operatori italofoni da decenni chiamano lo yuan)? Da Fixing in edicola la rubrica Prima Nota di Paolo Brera.
di Paolo Brera
Ma insomma perché la Cina non vuole rivalutare la sua maledetta monetaccia, il “giovanni” (così per scherzo gli operatori italofoni da decenni chiamano lo yuan, ignorando che per esattezza filologica si dovrebbe dire “renminbi”)? Ogni secolo ha i suoi spettri e quello che si sta aggirando minaccioso nel 2010 è quello della guerra valutaria. Il comunismo, il cui minaccioso aggirarsi intorno al 1848 è all’origine del-l’espressione, c’entra ancora, perché il più temuto fra i guerrieri valutari è un Paese dove al potere è un partito comunista: appunto la Cina. Da anni tutti, e in testa a tutti gli Stati Uniti, chiedono a Pechino di agire sulla propria moneta, il cui livello nei cambi è giudicato troppo basso per la salute delle bilance commerciali del mondo, e prima di tutto degli Stati Uniti d’America.
La richiesta, formulata ancora una volta all’ultima riunione del Fmi, sembra più che logica. Il ragionamento di chi invita Pechino a rivalutare è semplice: cari cinesi, dicono, potete permettervelo, non dovrete certo vivere né una crisi debitoria tipo quella argentina né un tracollo dei conti con l’estero. Anche una forte rivalutazione, nella peggiore peggiorissima delle ipotesi, provocherebbe solo un breve singulto nella bilancia commerciale in territorio negativo (e non è neppure certo). Hanno ragione? Be’, non c’è dubbio che il potere d’acquisto interno del renminbi sia sottovalutato dal cambio attuale. Non c’è dubbio che le aziende cinesi siano molto competitive anche grazie al cambio e non c’è dubbio che la Cina sia straordinariamente forte in termini di debito estero e di bilancia dei pagamenti. Se Pechino rivalutasse, il resto del mondo potrebbe tirare un sospiro di sollievo.
E allora perché i cinesi non fanno i bravi e acconsentono? Perché la Cina proprio questo fa, non acconsente, al di là delle parole buone diplomatiche che, qualunque sia il valore di uno yuan, non costano niente. Durante lo scorso fine settimana, in occasione del vertice del Fondo Monetario Internazionale a Washington, il governatore della Banca Centrale della Cina, Zhou Xiaochuan, si è opposto ad una rapida rivalutazione del renminbi. Zhou si è detto contrario ad una “terapia choc” quale chiedono occidentali e giapponesi, via il dente via il dolore, una bella botta e non ci pensiamo più. Secondo Zhou la riforma dei tassi di cambio potrà avvenire solo gradualmente. Con un’ardita metafora, il governatore ha paragonato la situazione a quella in campo medico. La medicina occidentale ha un effetto rapido e drastico. La Cina preferisce invece la medicina tradizionale, che concede alle diverse erbe più tempo per sviluppare la loro efficacia. Maneggiare la valuta cinese sarebbe “un’arte complessa”. A detta di Zhou bisognerebbe tenere conto dell’inflazione, della disoccupazione, del pil e della bilancia commerciale.
Sulla bilancia commerciale sono abbastanza convincenti le argomentazioni dei rivalutatori. Non solo la Cina non corre un grande rischio, ma dato l’accumulo di capitale che ha fatto negli scorsi vent’anni potrebbe anche permettersi uno o due anni di rosso senza sbattere le palpebre. Che Zhou menzioni l’inflazione è addirittura curioso. È vero che lo stesso Zhou ha dichiarato che potrebbe volerci un paio d’anni per ricondurre sotto il 3% l’aumento annuo dei prezzi dal picco del 3,5% registrato in agosto, ma è anche vero che da che mondo è mondo, la rivalutazione di una moneta ha sempre avuto un notevole effetto antiinflazionistico, non l’effetto contrario che il governatore è sembrato paventare.
I problemi della disoccupazione e del pil invece sono reali e, si capisce, sono strettamente collegati. Il rapido sviluppo del prodotto interno lordo ha avuto infatti come conseguenza la diminuzione del numero dei disoccupati e dei sottoccupati, che in Cina si misurano ancora in decine e centinaia di milioni. L’intera fioritura degli ultimi trent’anni si può interpretare come un modo per rendere produttiva questa forza lavoro, prima offrendo libertà d’impresa nelle campagne ai produttori privati, poi attirando capitale estero arrazzato dai bassi salari, dalla mancanza di garanzie sociali e sindacali e dal dispregio in cui era tenuta l’ecologia, e solo in un terzo momento mirando a una struttura economica più moderna e organica.
In Cina oggi c’è tutto il necessario per proseguire il cammino verso un società e un’economia moderne: tecnologia, forza lavoro istruita, relativa pace sociale. Ma non nelle proporzioni ottimali. Senza una crescita rapida, la disoccupazione diverrebbe esplosiva, ne sarebbe minacciata la stessa convivenza sociale. Ma la crescita rapida richiede un settore di esportazione forte, e richiede che restino in piedi le imprese marginali ancor oggi fondate sullo sfruttamento spietato dei lavoratori, che sarebbero falciate a decine di migliaia da una vera e rapida rivalutazione del renminbi. Per questo Pechino oggi ci va giù molto prudente. E, vogliamo scommettere?, continuerà a farlo, quali che siano le pressioni dall’esterno.