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Profumo… di soldi. L’Ad di Unicredit se ne va col golden parachute

da Redazione

«Mi mandano via». Si era sfogato in pubblico, Alessandro Profumo, nientemeno che sul Corriere della Sera. Aveva ragione. Ieri il Cd’A di Unicredit ha accolto le sue dimissioni dal posto di Ceo della prima banca europea. Profumo intasca quello che in America si chiama golden parachute e in Italia “un sacco di soldi”, saluta tutti e se ne va, non sappiamo dove, magari a San Marino a fare il top-consulente.

di Lou Nissart

 

«Mi mandano via». Si era sfogato in pubblico, Alessandro Profumo, nientemeno che sul Corriere della Sera. Aveva ragione. Ieri il Cd’A di Unicredit ha accolto le sue dimissioni dal posto di Ceo della prima banca europea. Profumo intasca quello che in America si chiama golden parachute e in Italia “un sacco di soldi”, saluta tutti e se ne va, non sappiamo dove, magari a San Marino a fare il top-consulente. Le critiche all’odoroso manager riguardavano la questione della partecipazione libica all’azionariato e la gestione. Ma le dimissioni non sistemano tutto: lasciano infatti aperti quattro problemi diversi, che proverò a elencare.

Primo e secondo problema, Mu’ammar Gheddafi. Il leader libico è stato da tempo sdoganato a livello internazionale, ha promesso di non mettere più le bombe sugli aerei di linea altrui e non si segnala più per pronunciamenti dirompenti. La Libia insomma non è più considerata uno “Stato canaglia”, se non da alcuni estremisti, e chi ha il gusto dello spettacolo può tranquillamente organizzare qualche dement-show a Roma, sicuro di trovare in Gheddafi un augusto di prim’ordine.

Questi show possono piacere o non piacere (in fede mia, devo ancora incontrare quelli a cui piacciono) ma un corollario indiscutibile è che gli sdoganati hanno tutti i diritti di comprare quote in Unicredit, come hanno fatto, senza che nessuno debba per forza scandalizzarsi. A riprova Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse, riferendosi appunto a Unicredit ha detto a SkyTg24 che «i fondi sovrani sono i benvenuti se rispettano regole di trasparenza, e invitiamo i Paesi ospiti di questi fondi a essere a loro volta trasparenti», per poi aggiungere che «occorre fare di più per gli investimenti di lungo periodo e meno sulla speculazione a breve, e dato che per principio i fondi sovrani dovrebbero fare investimenti a lungo termine, a parità di condizioni sono i benvenuti». Il che, tradotto, vuol dire che gli investitori devono anche pesare sulle scelte strategiche, altrimenti chi glielo fa fare di investire a lungo termine?

Secondo problema libico: già, ma in Unicredit vige il limite del 5% all’esercizio del diritto di voto di qualsiasi singolo azionista. Ora, risulta che due enti libici, la Banca centrale (in arabo مصرف ليبيا المركزي, e fra vent’anni non saranno pochi quelli in grado di leggere questa scritta) e il fondo sovrano Libyan Investment Authority, detengano insieme il 7,5% del capitale. Possono essere considerati lo stesso soggetto? La Consob pochi giorni fa ha detto di sì. Ne segue, a rigor di logica, che in assemblea hanno il diritto di esprimere il loro voto solo per il 5% del capitale. E anche se al novero degli azionisti libici si dovesse aggiungere Gheddafi con il suo patrimonio personale, il figlio di Gheddafi con la sua squadra di calcio, e chissà quale altro ente di Tripoli, Bengasi o Tobruk che obbedisca al raìs, il voto dovrà restare rivettato a quel livello.

E morta lì, però. Invece sul caso libico è montato uno scontro politico e mediatico al calor bianco, divenuto il terzo problema. La Lega Nord ha sparato a zero contro questa sospensione in terra torinese dello “scontro di civiltà” fra Cristianesimo e Islam. Il fatto è che di Unicredit sono azioniste anche due fondazioni bancarie sulle quali la Lega ha messo gli occhi: la Crt e la Verona.

La prima è terreno di scontro, e il suo presidente (che tale è fin dalla fondazione della Fondazione) Andrea Comba, settantaquattrenne esponente dell’ala democristiana del Pd, sta bordeggiando per restare al suo posto altri centoventi anni. I libici? Bisogna vedere se rappresentano davvero un unico soggetto, sia pure “bicipite” (questione in realtà già tranciata dalla Consob). Profumo? «Noi siamo stati storicamente i più fedeli alla linea di Profumo, anche a costo di gravi sacrifici per la Fondazione Crt. Occorrerà verificare in assemblea, dove parteciperemo, se il suo operare sia stato o meno conforme ai nostri interessi». (Quando i poteri di cricca parlano di verifiche in assemblea, vuol dire che hanno già verificato tutto il verificabile, deciso il decidibile, ma ancora non sono certi di vincere e vogliono tenersi aperto uno spiraglio per fare eventualmente marcia indietro.)

Cariverona, dopo un lungo assedio, è caduta nelle mani della Lega Nord, che ne ha nominato praticamente tutto l’organo di indirizzo. La Lega ha dichiarato apertis verbis di mirare al controllo di qualche banca, e Unicredit va bene come un’altra: anzi, come venti o trent’altre, viste le dimensioni. Se qualcuno si ricorda ancora che quando le Casse di risparmio furono scisse in un’azienda bancaria e in una Fondazione il motivo addotto fu quello di evitare la commistione fra interessi politici e aziendali, e se questo qualcuno di conseguenza non si spiega ciò che sta succedendo, costui deve essersi perso gli ultimi 2513 rivoltamenti di frittata operati da politici italiani, per non dire tutti quelli avvenuti invece più di due giorni fa. Verba volant, eaque nullus meminit. Che in arabo si dice معلومات تاريخية (guai a voi se andate a vedere il bluff. Ho tutti i diritti di appartenere alla mia generazione, che ha studiato il latino e non l’arabo classico).

Ultimo problema, la gestione Profumo in sé e per sé. Per anni l’odoroso manager è sembrato il Ceo più macho del sistema bancario italiano, seguito a ruota dal buon Corrado Passera alla cui machità troppo non s’addice il cognome. Due anni fa, al momento in cui per poco il sistema finanziario mondiale non si liquefà, salta fuori che Unicredit è la banca italiana messa peggio, insieme al Montepaschi. In Borsa le vendite cominciano a fioccare: molti pensano che Unicredit sia debole e possa crollare da un momento all’altro con grande letizia dei ribassisti.

Profumo, però, tiene botta – almeno in apparenza. «Non abbiamo bisogno di un aumento di capitale, io non mi dimetto», dice. Ma sta sottovalutando quello che succede, forse – dice il quotidiano l’Unità – è condizionato dalla cosiddetta “sindrome Schimberni”, l’ex amministratore delegato della Montedison che sognava e praticava l’emancipazione del manager, del capo azienda, dal controllo e dai vincoli degli azionisti, per poter parlare direttamente al mercato e ai risparmiatori.

Il giorno dopo il titolo Unicredit è travolto dalle vendite, il consiglio di amministrazione prepara e delibera al più presto un maxi aumento di capitale, a un prezzo largamente superiore alle quotazioni di mercato. A garanzia dell’operazione, che altrimenti rischierebbe di fallire, interviene Mediobanca, allora guidata da Cesare Geronzi. È lui, sembra, a corteggiare i libici, a mediarne l’ingresso nel capitale. Ciò che oggi viene rimproverato a Profumo.

Giocoforza è constatare che l’incanto si è spezzato e il carisma dell’odoroso manager è andato in pezzi. I risultati di Unicredit negli ultimi due anni non sono stati brillanti come un tempo. Una stagione è finita. Per questo il presidente Dieter Rampl, espressione del ramo tedesco della superbanca, ha chiesto la testa di Profumo – ach, so sehr höflich – e l’ha ottenuta.
 

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