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Le mostre del Meeting di Rimini 2010: da Dante a Solidarnosc

da Redazione

Le mostre del Meeting di Rimini 2010.

Da uno a infinito. Al cuore della matematica
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. B5

 

Flannery O’ Connor. L’infinita misura del limite
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. A3

 

In fondo al cammino c’è Qualcuno che ti aspetta. Lo splendore della speranza nel Portico della Gloria
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. A3

 

«Ma misi me per l’alto mare aperto». L’Ulisse: quando Dante cantò la statura dell’uomo
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. A5

 

Stefano d’Ungheria. Fondatore dello stato e apostolo della nazione
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. A5

 

Um Céu no chão. Un cielo in terra. Il samba del morro
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. C5

 

Danzica 1980. Solidarnosc
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. C5

 

Un impiego per ciascuno. Ognuno al suo lavoro. Dentro la crisi, oltre la crisi
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. B5
 

 

 

 

 

Da uno a infinito. Al cuore della matematica
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. B5

 

L’idea guida della mostra è creare l’occasione di un incontro con la matematica, anche per chi da tempo l’ha lasciata da parte come “qualcosa che non fa per me”.
L’incontro inizia con lo stupore di fronte a problemi semplici ma insoliti che evidenziano come un’idea risolutiva e chiarificatrice ci colpisca naturalmente come qualcosa di bello. Questo è lo spunto per iniziare a seguire quel filo intrecciato di verità e di bellezza che percorre tutta la matematica. Sono tante le domande che naturalmente possono nascere, a cui la mostra cerca di dare delle iniziali risposte: che cosa muove la matematica nel corso della storia? Qual è il suo metodo nella ricerca del vero? Che rapporti ha con le scienze sperimentali? Perché l’infinito riemerge continuamente nel discorso matematico e che ruolo ha? Che cos’è la dimostrazione? C’è ancora qualcosa da scoprire oggi in matematica? L’astrazione è nemica del rapporto col reale o può essere uno strumento potente di comprensione della realtà?
A chi entra nella mostra è proposto un germe di esperienza della matematica, un piccolo seme di meraviglia e identificazione nella sua struttura di “mirabili teoremi, stringenti dimostrazioni, formidabili applicazioni” attraverso cui si palesa una bellezza ben connotata dalle parole del filosofo e matematico Pavel Florenskij: “La bellezza non è una cosa nella quale si possa penetrare immediatamente. O meglio, e più precisamente, ci si può penetrare anche subito, ma dopo esserci rimasti accanto per un po’, e dopo che nell’animo i vari elementi assimilati progressivamente si sono composti insieme in maniera organica” (Non dimenticatemi, Mondadori, Mi, 2000, pg. 91-92).
L’ingresso della mostra propone un problema che contiene elementi caratteristici della matematica che lascia intuire o capire che cosa essa può essere fornendo lo strumento per rispondere. Si vuole destare curiosità e stupore, ma soprattutto generare nel visitatore domande che lo rendano disponibile ad inoltrarsi nel cammino successivo.
Prosegue con una galleria storica, in cui ci si accorge che siamo in buona compagnia, insieme a una lunga storia di matematici al lavoro, una tradizione più che bimillenaria, una tradizione vivente in continua evoluzione, fatta da uomini che hanno accettato l’impegno con domande molto simili alle nostre.
Seguendo dunque la linea del tempo, osservando una storia affollata di volti – una storia spesso caratterizzata dalla relazione tra maestro e allievo – si entra nella piazza della matematica, il luogo centrale della mostra, in cui l’incontro diventa rapporto e iniziale conoscenza.
La presenza fisica, al centro, del grande albero della matematica è metafora della matematica vista come organismo vivente, non rigido e monolitico, ma vivo e diramato. Intorno ad esso, sei postazioni offrono la possibilità di incontrare aspetti esemplari della matematica come disciplina. In ognuno di essi, aiutati da visualizzazioni exhibit e pannelli di spiegazione, si affrontano veri e propri problemi matematici, alcune delle questioni e dei filoni più significativi della matematica dalla sua origine ai giorni nostri. Dalla piazza si accede a quattro sale, in cui la visita continua, approfondendo in direzioni diverse il cammino nella matematica e della matematica.: la sala della dimostrazione, per conoscere gli oggetti della matematica e il suo metodo dimostrativo, la sala del rapporto tra la matematica e l’infinito, la sala del rapporto della matematica con la realtà fisica perché essa è il linguaggio della fisica e delle scienze della natura; infine la sala della matematica nell’arte e nella musica.

È prevista, accanto alla mostra ma con ingresso indipendente, un’aula didattica in cui ci sarà la possibilità per gruppi liberi di approfondire i contenuti della mostra, di partecipare a lezioni, a presentazioni di attività da parte di insegnanti o scuole e a dibattiti sulla didattica della matematica


A cura dell’Associazione Euresis

 

 

 

Flannery O’ Connor. L’infinita misura del limite
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
PAD. A3

 

Parafrasando ciò che Robert Fitzgerald scrive nella sua introduzione alla raccolta di racconti Everything that Rises Must Converge, possiamo dire che Flannery O’Connor è stata una brillante giovane donna che ha iniziato la sua carriera grazie a un talento per la commedia ed ha concluso la sua vita lasciando in eredità un corpus di racconti che rivela alcune delle verità più profonde riguardo l’esistenza umana (Thomas Merton la paragonò a Sofocle).
Credente convinta della sua fede Cattolica, Flannery O’Connor è nata e cresciuta in quella parte degli Stati Uniti, il Sud, dove il protestantesimo, spesso nella sua forma più estrema e integralista, era la religione dominate. La sua sensibilità sarà per sempre segnata dalla morte del padre avvenuta quando lei aveva 15 anni. In quella circostanza scrisse: “La realtà della morte ci ha raggiunti e la consapevolezza della potenza di Dio ha sfondato il nostro compiacersi come un proiettile nel fianco.”
Dopo essere stata brillante studente presso lo Iowa Writers Workshop, senza dubbio la più prestigiosa scuola per scrittori in tutta l’America, si trasferì a New York dove incontrò Robert e Sally Fitzgerald, e dove, invece di trovare il compimento naturale della sua talentuosa vocazione letteraria tra i più importanti artisti della East Coast, scoprì che aveva ereditato la stessa malattia che uccise suo padre: il lupus. Tuttavia fu proprio in questo momento, costretta a tornare nella sua sperduta casa di Milledgeville in Georgia a vivere con la madre, che O’Connor scoprì la sua profonda grandezza. I memorabili personaggi e gli indimenticabili ambienti dei suoi racconti emergono da questa sperduta parte del Sud degli Stati Uniti dove visse fino alla morte che la raggiunse quando aveva appena 39 anni. Ella stessa ebbe a descrivere la sua vita nella sperduta casa in Georgia come “una vita spesa tra la casa e il giardino”, ma proprio accettando queste semplici e drammatiche circostanze – “la vocazione implica l’esperienza del limite” continuava a ripetere – visse quel singolare e quotidiano incontro con il Mistero. La malattia. la scrittura, tutto si trasforma in quella strada che la porta ad una sempre più grande comprensione di come il Mistero parla attraverso quelle stesse realtà da Lui create.
La mostra inizia con un breve scorcio sulla vita di Flannery O’Connor e continua attraverso un percorso nella profondità delle sue idee, viste attraverso gli occhi del credente, riguardo alla natura dello scrivere come forma artistica.
La mostra prosegue con alcuni esempi tratti dai suoi racconti che documentano come il suo modo di fare arte prenda forma e carne nella parola. L’ultima parte della mostra mette in luce gli ultimi suoi giorni passati in una camera di ospedale dove Flannery scrisse le sue ultime storie e dove volle tenere viva la corrispondenza con i suoi più intimi amici. Queste ultime storie e lettere esprimono con chiarezza chi era questa donna e rappresentano il compimento della sua intera vita, dove l’unica misura accettabile del limite è la possibilità di un infinito e di un Mistero buono che fa tutte le cose


A cura di Dino D’Agata, Annie Devlin, Abby Holtz, Nick Kraus, Stephen Lewis, John Martino, Pietro Rossotti, Amy Sapenoff, James Sternberg, Chiara Tanzi.
Con la collaborazione di Maria Fiorenza Matteoni

 

 

 


In fondo al cammino c’è Qualcuno che ti aspetta. Lo splendore della speranza nel Portico della Gloria
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010

Pad. A3

 

Il Portico della Gloria, posto sulla facciata occidentale della Cattedrale di Santiago di Compostela, è una pietra miliare dell’arte fra i capolavori artistici più celebri. La bellezza e il mistero delle oltre 200 figure presenti hanno conquistato i pellegrini di ogni epoca, diventando oggetto di diversi studi (artistici, storici, teologici, addirittura musicali). Oggi possiamo avvicinarci a quest’opera originale, così piena di enigmi per l’uomo moderno, cercando di sviscerarne il significato. Cosa volevano trasmettere i suoi artefici? A chi era diretta? Cosaha da dire a noi?
La genialità del Maestro Matteo, autore dell’opera tra il 1175 e il 1188, va oltre le interpretazioni che fino ad oggi hanno cercato di dare una spiegazione al Portico. L’Apocalisse non è l’unica fonte di interpretazione, ed infatti la scena centrale del timpano non rappresenta il Giudizio Universale. Cristo Re non è in posizione giudicante, ma sta aspettando i pellegrini; è proprio attraverso lo sguardo dell’Apostolo Giacomo, posto ai piedi del Cristo, che il pellegrino viene introdotto alla figura di Gesù, seduto sul trono della Gloria. Cristo, con sguardo sereno, amorevole e pieno di pace, ci aspetta alla fine del nostro cammino e, accogliendoci, ci riempie il cuore di speranza. Per questo guardando il Portico, attraverso una ricostruzione fotografica straordinaria realizzata in occasione dell’Anno Giubilare Giacobeo, il visitatore si troverà veramente di fronte ad un messaggio di speranza per tutti gli uomini, credenti e non, perché in tutti è insito lo stesso desiderio che li spinge a muoversi verso la felicità.
Il capolavoro del Maestro Matteo rende evidente l’attrattiva esercitata da Cristo, che è la stessa attrattiva che ha alimentato la creatività dell’uomo occidentale fino alla costruzione dell’Europa.
L’enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI può contribuire ad illuminare il significato del Portico della Gloria: “Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio. [..] Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati fino alla fine” (n.31).

A cura di Félix Carbó, Miguel Angel Blazquez.
Con la collaborazione di Enrique Bican, Rafael Gonzalez.

 

 

«Ma misi me per l’alto mare aperto». L’Ulisse: quando Dante cantò la statura dell’uomo
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
Pad. A5
 

L’Ulisse dantesco rappresenta un’immagine insuperata della grandezza dell’uomo, del suo irrefrenabile impeto a penetrare nell’ultima profondità delle cose, nella scaturigine dell’essere. L’«ardore» che lo spinge a prendere il mare per conoscere «i vizi umani ed il valore» è la cifra del personaggio, la sua natura più vera. Come scrive Mario Fubini, è «un impulso innato nell’uomo» quello che porta Ulisse «ad affrontare le più ardue e rischiose imprese», a tentare la traversata dell’oceano misterioso e sconfinato del significato. Così, con remi divenuti metaforicamente ali, la sua imbarcazione spicca il «volo», lasciandosi alle spalle le colonne d’Ercole. È lo stesso «volo» che Dante dovrà compiere in tutta la Commedia, e in particolare nel Paradiso, per giungere fino a Dio.
Non di rado, tuttavia, l’Ulisse di Dante è stato guardato con sospetto. Molta critica ritiene che si tratti solo di un superbo ingannatore: come un novello Lucifero che, desiderando più del dovuto, avrebbe passato il segno e osato farsi simile a Dio. Il rimprovero a Ulisse che fu di Petrarca, subito a ridosso della Commedia: «Desiò del mondo veder troppo» (Trionfo della fama, II, v. 18), rivela una posizione che la nostra cultura ha largamente accolto e fatta propria: sospettare questa smisurata aspirazione del cuore, stigmatizzarne l’eccesso, oppure svuotarla del suo contenuto reale. Così ci si preclude la comprensione dell’Ulisse dantesco, perché si misconosce l’autentica scintilla del muoversi umano.
Ma quella dell’Ulisse non è esagerazione tracotante dell’aspirazione umana: è l’aspirazione umana stessa, nella sua vincolante e originale portata. Contenerla o contrastarla, o peggio ancora condannarla, sarebbe un assassinio dell’umano. Non è un caso, allora, che proprio a questa figura corsero il pensiero di Primo Levi (essa «riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie»; Se questo è un uomo) e quello di Osip Mandel’štam («Questo canto è sulla composizione del sangue umano, che contiene in sé il sale dell’oceano»; Conversazione su Dante), proprio mentre soffrivano rispettivamente la violenza nazista e la persecuzione staliniana. Da luoghi progettati per annientare la dignità umana, entrambi riconobbero nell’Ulisse il simbolo più vero del valore infinito di ogni uomo, di ciò che lo rende ultimamente irriducibile, nonostante tutto il male che può essergli fatto.
Chi siamo noi di fronte alle colonne d’Ercole, a ciò che vediamo e tocchiamo, alla realtà e al limite posto dall’esistenza alla volontà di penetrazione nell’ignoto, nell’oceano del significato? L’Ulisse o lo spirito di una positivistica misura? «Ma lui, Ulisse, proprio per la stessa “statura” con cui aveva percorso il mare nostrum, arrivato alle colonne d’Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine, ma che era anzi come se la sua vera natura si sprigionasse da quel momento. E allora infranse la saggezza e andò». (L. Giussani, Il senso religioso, p. 187).
Questo Ulisse continua pertanto ancor oggi a dar scandalo ai saggi e ai benpensanti e respiro agli amanti della grandezza e nobiltà della natura umana.

A cura di Ilaria Ariemme, Pietro Bocchia, Stefano Braschi, Carlo Carù, Irene Coerezza, Alberto De Simoni, Carmine Di Martino, Daniele Ferrari, Gabriele Grava, Simone Invernizzi, Tommaso Montorfano, Michele Orfano, Pietro Pellegatta, Benedetta Quadrio, Carlo Sacconaghi, Luca Tizzano, Paolo Torri.
 

 

 

Stefano d’Ungheria. Fondatore dello stato e apostolo della nazione
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
Pad. A5

Se si chiede ad un cattolico ungherese come vede la sua nazione e la sua appartenenza ad essa, egli risponderà che il popolo ungherese è il popolo di Santo Stefano e che l’Ungheria è la Nazione della Vergine Maria. Infatti la millenaria storia dello Stato d’Ungheria è caratterizzata, fin dalla sua fondazione, dall’impostazione cattolica che il suo primo re, Vajk, battezzato successivamente da Sant’Adalberto con il nome Stefano, le ha dato.
Infatti correva l’anno mille, quando da una lega di tribù nomadi re Stefano decise di realizzare lo stato d’Ungheria, ponendo come fondamento della nazione e collante decisivo tra le persone la fede cristiana. Fu così che con l’aiuto di San Gerardo, abate benedettino veneziano, consigliere del re e precettore del figlio, dei vescovi e degli ordini religiosi italiani e slavi, suddivise il territorio ungherese in diocesi, costruì chiese e monasteri e diede inizio ad una vita di fede che in breve tempo si espanse in tutto il paese.
Papa Silvestro II non solo diede il suo beneplacito a quest’opera, ma come segno di amicizia e di sostegno, inviò da Roma la corona regale a re Stefano.
Morto in una battuta di caccia il figlio Emerico, che sarebbe stato l’erede ideale, re Stefano ritenendo la regalità di Cristo la suprema fonte di ogni regalità terrena, affidò alla Madonna il compito di intercedere, affinché l’opera di educazione cattolica iniziata nell’ancora giovanissimo stato d’Ungheria, potesse continuare con i suoi successori al trono. Come segno di questo affidamento della nazione, affidò alla Madonna i simboli imperiali: la corona, lo scettro e la spada.
Gli anni trascorsero attraverso molte vicissitudini e alternanze di governanti spesso molto poco cristiani, nonostante ciò l’Ungheria annovera un gran numero di Santi e beati tra le persone delle famiglie regali.
L’Ungheria ha influenzato grandemente la storia dell’intera Europa proprio in forza del metodo di governo che re Stefano aveva impostato: apertura ai popoli circostanti, istaurando con essi rapporti pacifici, una disponibilità ad accogliere chiunque passasse per il suo territorio, convinto di poter imparare da chiunque, e una grande moralità derivante dalla fede cattolica. Insomma l’attuale popolo ungherese, benché provato da molte devastazioni (invasioni di Tartari, di Turchi, regimi totalitari, ecc.), ha mantenuto un attaccamento allo stato e alla sua origine, tale da renderlo unico nel suo genere.
A tutt’oggi, infatti l’Ungheria è l’unica nazione in cui la corona di un re cristiano, Santo Stefano, viene custodita in parlamento ed è citata nelle Costituzioni stesse della nazione.
La mostra, composta da grandi immagini e da vari reperti (tra cui la copia della corona di Santo Stefano custodita nella chiesa di Mattia a Budapest) presenterà questa grande figura di re, apostolo e santo, il primo a essere dichiarato tale sia dalla chiesa Cattolica che da quella Ortodossa.

 

A cura dell’Università Cattolica Péter Pázmány e del Centro Studium di Gorizia.
 

 

 

 

Um Céu no chão. Un cielo in terra. Il samba del morro
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
Pad. C5

La mostra nasce dal desiderio di fare conoscere a tutti il vero cuore della favela e la bellezza del popolo che la abita, generalmente associato pertanto all’immagine della povertà.
La favela è il luogo dove si custodiscono i valori e dove è nata e continua a svilupparsi una cultura propria.
Dalla favela sgorga il samba, il samba-canzone, la marcia-rancho, il baiao e il maracatù, gioielli affascinanti della musica popolare: quello che colpisce è che proprio da quelle baracche sboccia la bellezza di una poesia, intessuta dal dolore di un popolo.
I favelados presentano ciascuno una personalità propria, ciascuno ha il suo volto, segnato dal suo proprio dolore. La lotta accanita per il minuto di vita, che può essere strappato alle mille difficoltà dell’ambiente, ha reso ogni favelados maestro dell’arte raffinata e pericolosa della sopravvivenza.
Egli non nasconde questa scienza acquisita, ma la esprime e la dona con generosità a tutti attraverso la poesia e la musica.
Tramite il percorso della mostra si cerca di accompagnare il visitatore dentro la vita vera della favela per incontrare una realtà che va oltre a ciò che gli occhi vedono ed il samba è la sua forma di espressione più bella.
Ogni sala è stata pensata per scandire le tappe di questo miracolo artistico, che, nato come espressione della coscienza del suo popolo, lo accompagna in tutti i momenti della vita da quelli più gioiosi fino a quelli di estremo dolore.
Nell’introduzione, che con la conclusione aiuta a cogliere pienamente il senso della mostra, viene proposta un’analogia tra il ritmo del cuore e quello creato da tutti gli strumenti da cui è composto il samba.
Questa analogia sarà percepibile a livello sonoro; il cuore infatti è il centro della vita, esalta la vita, la sostiene, ma solo l’uomo attento al reale si accorge del suo battito; così è anche il samba per il suo popolo, nato nella favela, esprime tutta la ricchezza umana e la bellezza che vi è racchiusa.
Nella conclusione il visitatore viene chiamato a riflettere su tutto il percorso che ha affrontato per capire come il samba, fin dalla sua origine, comunichi la dignità di un’esperienza umana vera e affermi l’espressione del senso totale dell’umano.
Il cuore giunge a un punto in cui non ha più parole per esprimersi, ma è esso stesso che si esprime, e questo viene reso nei samba attraverso il cantare “laiàlaià”: solo un suono, quasi senza parole che vibra nell’aria, infinitamente. E così il percorso della mostra non presenta solo la storia del samba, ma anche il nostro cuore che batte ed esalta la vita.


A cura di Pier Luigi Bernareggi, Rosa Brambilla. Con la collaborazione di Kika Antunes, Marcela Bertelli, Anna Zamboni.

 

 

 

 

Danzica 1980. Solidarnosc
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
Pad. C5

La mostra si colloca in una rilettura della storia del secondo Novecento che ha già avuto due tappe al Meeting (Budapest 1956 e Praga 1968) e che presenta il riproporsi, in questo periodo storico, del dramma tra libertà dell’uomo e ideologia del potere, spesso con risvolti drammatici e violenti.

L’ondata di scioperi che prese il via nei cantieri navali di Danzica nell’agosto del 1980, estendendosi presto a molte altre fabbriche in quasi tutta la Polonia, segnò l’irrompere nella storia europea di una parola nuova: solidarność, solidarietà. Questa parola incarna lo spirito assolutamente unico che animò i protagonisti di quella lotta, e che è il tratto caratteristico di questa vicenda, che in breve allargò il proprio orizzonte da quello di una rivendicazione sindacale operaia a un vero e proprio movimento di popolo, nel quale si trovarono coinvolti insieme operai, contadini, studenti, esponenti della cultura.

Lo sciopero di Danzica è l’evento di una lunga vicenda di scontro fra il popolo polacco e l’oppressione del regime comunista che ha segnato dolorosamente la storia della Polonia nel dopoguerra. I precedenti vanno dalla rivolta di PoznaÅ„ del giugno 1956, a cui si legò l’insurrezione di Budapest dell’agosto seguente, a quelle di Danzica del 1970 e del 1976. Ma oltre alla ribellione contro condizioni di vita difficilissime, il fattore nuovo che emerge nel 1980 è una nuova coscienza della dignità dell’uomo e della necessità che il lavoro abbia un senso perché l’uomo possa vivere. Come afferma Jósef Tischner, “la ribellione degli operai polacchi del 1980 è stata una ribellione contro la patologia del lavoro. In che cosa consisteva questa patologia del lavoro? Diremo brevemente che in Polonia si era verificato il fenomeno del lavoro senza senso. […] Restituire al lavoro una dimensione etica significa far sì che il lavoro serva alla comprensione tra uomo e uomo. Questo è l’ethos del lavoro. L’ethos del lavoro è per il lavoro ciò che il bello è per l’opera d’arte. Un’opera d’arte priva di bellezza non è un’opera d’arte. Un lavoro che non serve alla comprensione non è lavoro”.
Questa coscienza ci sembra anche il lascito più importante che la vicenda di Solidarność affida all’uomo di oggi, ciò che rende la rilettura di questa pagina di storia una possibilità offerta a ciascuno di noi per andare a fondo del modo con cui affrontiamo nella vita di ogni giorno il tema del lavoro, nelle sue molte sfaccettature rese più evidenti dalla crisi economica attuale.
La mostra si articola in cinque sezioni: dopo una Introduzione nella quale si ripercorre sinteticamente la storia dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica nel dopoguerra, con riferimenti ai momenti di rivolta repressi spesso con violenza (Germania 1953, Polonia e Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, Polonia 1970 e 1976), si documenta lo sciopero dell’Agosto del 1980 e la nascita di Solidarność. Una piccola galleria di ritratti dei principali protagonisti – da WaÅ‚Ä™sa al Cardinale WysziÅ„ski, da Tischner ad Anna Valentynowicz, la leader di Solidarność morta tragicamente pochi giorni orsono insieme alla quasi totalità della dirigenza dello stato polacco – introduce alla documentazione della progressiva repressione culminata nella proclamazione dello Stato di Guerra il 13 dicembre 1981. Un’ultima sezione riguarda Solidarność e noi, ossia il coinvolgimento che l’Occidente, e in modo particolare l’Italia, visse con il popolo polacco: la mobilitazione, gli aiuti, le pubblicazioni, le manifestazioni di solidarietà, testimonianze di una vicinanza e di una gratitudine che avrebbero trovato modo di esprimersi a distanza di dieci anni anche in occasione della visita di Lech WaÅ‚Ä™sa al Meeting nel 1990.

Sessanta foto di Chris Niedenthal, affiancate da una ventina di immagini provenienti da archivi storici polacchi, documenti, oggetti e quattro video – due sullo sciopero, uno sulla repressione, e quello dell’incontro con WaÅ‚Ä™sa al Meeting del 1990 – costituiscono il materiale della mostra, che si giova di alcune ricostruzioni degli ambienti fulcro della vicenda – l’ingresso ai cantieri navali, la sala delle trattative, una tipografia clandestina – capaci di fare rivivere ai visitatori una pagina di storia ancora viva per i più anziani, e tutta da scoprire per i più giovani.

A cura di Sandro Chierici, Annalia Guglielmi, Daria Rescaldani. Fotografie di Chris Niedenthal. Con il contributo di Archivio KARTA e Istituto per la Memoria Nazionale, Varsavia. Archivio Erich Lessing, Vienna. Dana Kyndrová, Praga. Federico Brunetti, Milano. Roberto Giacomel, Milano.

 

 

 

Un impiego per ciascuno. Ognuno al suo lavoro. Dentro la crisi, oltre la crisi
domenica 22 agosto 2010 – sabato 28 agosto 2010
Pad. B5

Tutti ne siamo stati toccati, ma pochi hanno davvero capito cosa sia successo. Improvvisamente si è parlato di mutui subprime, di derivati, di hedge funde sembravano qualcosa di molto lontano, come di solito è la finanza. Poi, le principali banche americane hanno iniziato ad andare in crisi e, tutto sommato, anche questo poteva interessarci poco.
Ma dopo qualche tempo, le banche italiane hanno erogato sempre meno credito, alcune imprese hanno dovuto chiudere, la disoccupazione è aumentata.
Cosa ha scatenato tutto questo?
Come mai gente che faceva il tondino di ferro, le sedie o lavorava nel settore delle scarpe si è trovata a essere sempre più in crisi e a non arrivare alla fine del mese, nonostante la qualità dei suoi prodotti? Come mai la finanza, strumento fondamentale a sostegno dell’economia reale, si è rivelata una catastrofe simile allo tsunami?
Cosa è successo quando, in un processo iniziato da tempo di cui questa crisi è solo l’ultimo drammatico epilogo, le dinamiche economiche hanno rinunciato a mettere al centro le singole persone?
La domanda che si pone è se un’economia dell’uomo e per l’uomo non debba solo tener conto dei desideri, delle aspirazioni, della creatività, ma anche valorizzare l’esigenza e la capacità di creare legami e realizzare il bene comune. E’ quindi una diversa concezione del lavoro il punto centrale da cui ripartire.
Molti esempi virtuosi in questa direzione sono già in atto. La mostra vuole dare testimonianza anche di questo.

Una crisi può essere una vera benedizione per ogni uomo e per ogni nazione, perché tutte le crisi portano progresso.
La creatività nasce dalle difficoltà, come il giorno nasce dalle tenebre della notte.
E’ dalla crisi che scaturiscono inventiva, scoperte e grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi, inibisce il proprio talento e da’ più valore ai problemi che alle soluzioni. […]
Senza crisi non c’è sfida, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c’è merito. E’ dalla crisi che emerge il meglio di ciascuno, poiché senza crisi ogni vento è una carezza. Parlare di una crisi significa promuoverla, non parlarne è esaltare il conformismo. Piuttosto lavoriamo duro.
Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi che ci minaccia, cioè la tragedia di non voler lottare per superarla.
Albert Einstein

Il desiderio è come la scintilla con cui si accende il motore. Tutte le mosse umane nascono da questo fenomeno, da questo dinamismo costitutivo dell’uomo. Il desiderio accende il motore dell’uomo. E allora si mette a cercare il pane e l’acqua, si mette a cercare il lavoro, a cercare la donna, si mette a cercare una poltrona più comoda e un alloggio più decente, si interessa a come mai taluni hanno e altri non hanno, si interessa a come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell’ingrandirsi, del dilatarsi, del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente “cuore”.
Luigi Giussani


A cura di un gruppo degli studenti di economia delle Università Bocconi e Cattolica di Milano, dei giornalisti Enrico Castelli e Gianluig Da Rold, di Giorgio Vittadini e della Fondazione per la Sussidiarietà. In collaborazione con il Tg1, Paolo Cevoli, Guido Clericetti, il Club CdO Libera Impresa e Sentieri del Cinema.

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