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Melting pot della ricerca all’Università  di Trento

da Redazione

Scouting all’anglosassone all’Università di Trento: per i ricercatori chiamata diretta e curricula. Scienziati da tutto il mondo attratti dall’eccellenza del polo italiano.

Sheref Mansy, classe 1975, da Denver, Colorado. Curriculum stellare nel campo delle origini della vita, celebrato da Nature, e una dote da un milione di dollari. Proviene dalla fondazione Armenise-Harvard per il programma Career Development Awards: ogni anno si finanzia la ricerca di un giovane scienziato e si scommette sul suo futuro. Il milione se lo è aggiudicato l’università di Trento quando Mansy, nell’agosto scorso, ha deciso di venire al Cibio, Centro di biologia integrata dell’università. Senza passare per un mortale concorso all’italiana. La via maestra è lo scouting all’anglosassone: bandi sulle riviste scientifiche, analisi dei curricula, chiamata diretta. Tutto possibile perché Trento non sfora il tetto fissato per legge sulla spesa in personale (90% dei fondi nazionali) e dunque può assumere anche così. Sul mercato della ricerca, Trento sta diventando uno scalo internazionale, vocata naturalmente al melting pot scientifico. Nell’ateneo scelto nel 2005 da Microsoft per una partnership fifty-fifty relativa al centro di calcolo sul biotech, il 30% dei dottorandi è straniero. Qui lavora l’1% dei professori italiani ma vi approda il 4,5% delle risorse concesse dalla Ue. Un record.
A Trento ci sono le condizioni per essere tra i migliori al mondo nel settore Ict: per creare computer in grado di decifrare le emozioni di un essere umano dalle ombreggiature della sua voce, dalla velocità con cui parla, dagli accenti. Un progetto che ha già fruttato un accordo quadro dai molti zeri con Telecom. E che contribuisce a spiegare un dato di grande rilievo: i finanziamenti alla ricerca del dipartimento di elettronica e informatica di Trento ammontano a 117mila euro all’anno per professore. Non poi così lontano dalle performance di Stanford (157mila dollari), di Berkeley (141mila dollari) o del mitico Mit (166mila circa) negli stessi comparti.
Negli ultimi tre anni hanno scelto di venire qui quattordici esperti di Ict di standing mondiale: 13 sono stranieri. L’ateneo ha attirato il 20% dei docenti tornati in Italia con la famosa legge per il rientro dei cervelli. Si cercano i migliori dal Mit ad Harvard, dall’India al Giappone. Qui trasferiscono le loro reti di contatti, che a loro volta creano partnership per accedere ai finanziamenti internazionali. Così l’università ha altri soldi per fare un’ ltra campagna acquisti e allevare nuovi talenti in casa.
Tra le star dell’università il laboratorio di nanotecnologie. Nel 2002 ha attirato un’enorme attenzione da parte della comunità scientifica mondiale con un articolo in cui si tracciava la strada per un laser al silicio, più performante ed economico di quelli attuali. Oggi, nel suo laboratorio multietnico (ricercatori dalla Russia e dagli Usa, molti giovanissimi), la sua partita si gioca sulla conduttività del silicio: in dimensioni micro è in grado di supportare segnali ottici e quindi trasportare enormi quantità di dati. Con Intel e StMicro si sta lavorando a connessioni ultraveloci intra-chip. Ed è nato un progetto di collaborazione con sei atenei indiani per avviare un It park.
Ultimo pilastro: a portare denaro alle idee è un ente locale sui generis e ricco come la Provincia autonoma. Nel 2009 ai 73 milioni statali la cassaforte locale ne ha aggiunti altri 47,7, di cui 2,6 per la ricerca, che diventeranno 13 nel 2010.
L’università di Trento rappresenta il 2% del Pil regionale e porta sul territorio cento milioni all’anno grazie agli studenti fuori sede. Fornisce competenze a industrie come Ducati e Fiat, che in Trentino hanno impiantato centri ricerca. Non a caso dei 34,8 milioni che l’ateneo ha previsto di stanziare per la ricerca nel 2010, oltre un terzo arriveranno da imprese private. Collabora con istituti pubblici come la fondazione Mach (genomica agroalimentare) e privati come la fondazione Bruno Kessler (biotech e tanto altro).
A Mattarello, 15 chilometri dal centro cittadino, fine novembre scorso ha aperto la nuova sede del Centro di ricerca interdipartimentale sulle tecnologie biomediche. Ricercatori giovanissimi lavorano su progetti nel settore oncologico, farmaci a lento rilascio sulle zone cancerogene, – e in quello della biologia molecolare: rigenerazione dei tessuti per evitare protesi. Il direttore, Claudio Migliaresi, afferma sicuro: “Siamo già tra i primi in Europa”. Lo dimostra la creazione di un bioreattore. Serve a simulare in vitro il carico a cui un tessuto, in questo caso osso o cartilagine, è sottoposto in vivo. Consentirà di accorciare i tempi della ricerca in campo biotech. Migliaresi non è un biologo, ma un ingegnere chimico. E nel suo team le competenze si incrociano come i cavi di una fibra ottica: ricerca del futuro”. È questo intreccio che ha portato a progettare, costruire e presto a brevettare il bioreattore, nato interamente a Trento. Nascerà una start up. Con quote riservate, a rotazione, ai giovani ricercatori. L’invenzione non arricchirà nessuno ma darà loro sostegno economico nei tempi morti dei finanziamenti pubblici. Standard di competizione americani su un letto di welfare europeo. La terza via trentina della ricerca sfonda il muro del familismo amorale delle baronie universitarie.
 

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