grandi numeri dell’acceleratore d’impresa del Politecnico di Milano, motore di idee che diventano start up. Si parla di 26 nuove aziende, ben 220 business plan vagliati, le idee di 1.100 aspiranti imprenditori ascoltate. Un altro esempio virtuoso da cui trarre spunto, anche (perché no?) a San Marino.
Di Saverio Mercadante
Ventisei nuove aziende, vagliato 220 business plan, ascoltato 1.100 aspiranti imprenditori, aperto alle clean technologies e si sta per avviare una succursale nella Silicon Valley.
Sono i grandi numeri dell’acceleratore d’impresa del Politecnico di Milano. Motore di idee che diventano start up. Quattro sedi per il tutoraggio alle imprese, luogo di confine e di trincea tra 35mila iscritti, 1.400 docenti dell’ateneo, e impresa del futuro. È la idea-area che aspira le 391 invenzioni e i 203 brevetti del-l’ateneo. L’ostacolo da superare è sempre lo stesso: la storica latitanza in Italia di venture capital, capitale di rischio. L’incubatorio è stata fondato nel 2000. Ma il giro di boa decisivo c’è stato nel 2007. Nasce la fondazione Politecnico, nel board il parterre du roi dell’industria italiana, Ansaldo ed Enel, Trenitalia ed Edison. Infarcito da una serie di enti locali, Comune e Provincia primi attori. Il percorso è semplice: l’università fornisce la materia prima, i cervelli, il Politecnico si fa da garante per le idee, le imprese affiancano, sostengono, talvolta diventano partner industriali. Qualche esempio di start up dell’acceleratore d’impresa di via Durando a Milano.
Fluidmesh, in soli quattro anni, leader dei sistemi di telesorveglianza wireless. I propulsori: quattro ingegneri italiani, due con master all’Mit di Boston, nessuno sopra i trent’anni. Il porto di Venezia e l’aeroporto di Firenze. Il dipartimento di polizia di Birmingham e l’ospedale di Busto Arsizio. Il monumento ai caduti del Vietnam in Virginia e il confine tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi. In ognuno di questi luoghi un collegamento wi-fi made in Italy per le telecamere dei sistemi di sicurezza di queste “postazioni sensibili”, firmato Fluidmesh. L’acceleratore d’impresa è anche innovativo nella sua struttura: non esiste nulla in Italia che abbia tra i soci, imprese ed enti pubblici, e sia gestito da una fondazione. La fondazione è flessibile quanto basta per prendere decisioni rapide, gli enti pubblici ci mettono i soldi, le teste d’uovo hanno a disposizione spazi attrezzati e tutoring manageriale per portare avanti lo sviluppo delle idee.
Altro esempio: Ske, fondata da Sara Mantero, ricercatrice del Politecnico nel settore biomedicale, che con quattro allievi ha creato una start up nel settore di ingegneria dei tessuti organici. E ci hanno investito anche soldi propri. Hanno messo a punto un bioreattore che ha reso possibile il primo trapianto di trachea, effettuato a Barcellona da un chirurgo italiano, Paolo Macchiarini. Il macchinario ha ripopolato il tessuto della trachea da impiantare, ripulendolo, con campi fisici adeguati, dalle cellule del donatore. Prima dell’intervento, prove in laboratorio, poi su animale, in partnership con l’università di Bristol. Intervento riuscito. Il bioreattore ha sucitato subito l’interesse del colosso americano Harvard Bioscience, quotazione al Nasdaq e più di cento anni di storia alle spalle, che lo ha testato e brevettato. La Ske ha ceduto la licenza e si è riservata la distribuzione per l’Italia. Creare un posto di lavoro in una di queste start up costa 50 mila euro, nel 2007 la cifra era dieci volte superiore. Il “modello serra”, come lo chiamano gli inglesi, fa fruttare i semi delle idee e abbassa i costi d’avviamento.