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Banca d’Italia, il buio dietro l’assemblea

da Redazione

Bankitalia, nella sua ultima recente relazione, Mario Draghi ha lanciato l’allarme. Un allarme purtroppo destinato a restare inascoltato, perché Bankitalia non conta più come una volta. L’aspetto più controverso delle dichiarazioni di Draghi è legato al ruolo delle Fondazioni bancarie, troppo presenti, troppo pressanti.
 

Le assemblee generali della Banca d’Italia hanno una tradizione ormai quasi paragonabile a quella dei Concili ecumenici. L’ex istituto di emissione italiano ha fatto finta per oltre un secolo di essere una società per azioni – e a tutt’oggi i principali “azionisti” sono le banche che palazzo Koch ha come mandato di sorvegliare e indirizzare. Le assemblee sono la cornice di prestigio in cui il governatore emette i suoi prestigiosi borbottii, supportati dal servizio ricerche più cromato d’Italia. Gli ingredienti abituali sono i moniti al governo di turno e le preoccupazioni riguardo ai veri problemi, espresse, queste ultime, con un ampio supporto di cifre. Per questo è sempre stato difficile che qualcuno vi trovasse da ridire. La Relazione del governatore veniva ascoltata applaudita lodata – ovviamente ciascuno lodava quello che gli faceva più comodo – e poi anche archiviata e dimenticata. Ciò perfino quando Bankitalia reggeva le redini della politica monetaria, che ormai invece è quasi tutta nelle mani della Bce. Non c’è dubbio che avverrà così anche dell’ultima Relazione. Ma possiamo comunque rilevare che rispetto al passato c’è qualche novità.
I temi principali che ha trattato nei giorni scorsi il governatore Mario Draghi sono l’impatto della crisi sull’economia italiana e sul mercato del lavoro, e la situazione delle banche.
L’economia italiana risulta, fra quelle europee, una di quelle che più ha sofferto nella crisi degli ultimi due anni, con una caduta del pil di circa sei punti e mezzo, vale a dire quasi la metà della crescita che avutasi nell’intero decennio precedente. Ciò ha avuto un evidente impatto su redditi e consumi familiari, con un ricorso molto ampio agli ammortizzatori sociali. La reazione politica ha consentito di limitare gli effetti di questa crisi, in una misura che si può stimare in circa due punti percentuali del pil, grazie alla politica monetaria e agli stabilizzatori automatici. Il contraccolpo sull’occupazione è stato tuttavia piuttosto rude, specie nelle classi di età più giovani. Critico è, innanzitutto, l’ingresso al lavoro. Rispetto al 2008, dice la relazione di Bankitalia, la riduzione della quota di occupati tra i giovani è stata quasi sette volte quella fra gli altri. Due sono le cause principali: la contrazione del 20% delle nuove assunzioni e la maggiore diffusione fra i giovani dei contratti a termine. Nel 2009 gli under-35 hanno costituito circa il 60% dell’occupazione a termine, ma solo il 30% di quella complessiva. I salari d’ingresso sono bassi e stagnanti. Questa situazione minaccia di privare della sua base lo stesso sistema pensionistico, che si regge sugli occupati, rendendo quindi urgente la riforma del mercato del lavoro. Draghi ha anche auspicato una crescita economica dell’Italia a ritmi sostenuti. Perché, ha ricordato, “una ripresa lenta accresce la probabilità di una disoccupazione persistente e questa condizione, specie se vissuta nelle fasi iniziali della carriera lavorativa, tende ad associarsi a retribuzioni successive permanentemente più basse”.
Nessuno potrebbe mai criticare questa posizione, visto che è come dire che è più bello essere più ricchi invece che più poveri. Difficile, invece, è che il governo italiano si lasci commuovere da queste denunce e da queste enunciazioni di desiderata. Più importante è stato quanto Draghi aveva da dire sulle banche. Citando le analisi di stress del suo sublime Ufficio Studi, il governatore ha confermato che la stabilità finanziaria e il rispetto dei requisiti minimi regolamentari da parte delle banche italiane sono impeccabili. Anche ipotizzando un quadro generale 2010-2011 con una crescita del pil inferiore del 3% alle stime correnti, i due elementi sarebbero rispettati. Però Draghi ha detto anche che “le banche devono essere preparate ad affrontare periodi anche prolungati e ricorrenti di anomalia sui mercati”, aggiungendo che “fare banca sarà meno redditizio, ma anche meno rischioso”: una specie di memento mori per banchieri.
L’aspetto più controverso della Relazione è stato quello relativo al ruolo delle Fondazioni bancarie, il cui potere Draghi giudica ancora eccessivo. Il governatore vorrebbe una maggiore indipendenza delle Fondazioni dal potere politico e dei manager bancari dalle Fondazioni, rivendicando anche il potere per Bankitalia di dare un calcione ai manager inadeguati. Niente riferimenti espliciti, ovviamente, ça ne se fait pas, ma il pensiero di tutti è corso alle vicende che hanno dominato le recenti cronache finanziarie: l’attivismo della Lega sulla partita Unicredit e l’interventismo del sindaco di Torino Sergio Chiamparino (Pd) sulle nomine per Intesa-SanPaolo. Un sistema bancario politicizzato è una iattura per qualsiasi Paese moderno, non meno di quanto lo sia un sistema bancario dedito al gioco d’azzardo dei subprime e dei derivati, alle madofferie e alle altre forme di circonvenzione degli sventurati. Bankitalia ha lanciato un allarme. Ma se non verrà una crisi ancora maggiore, possiamo star certi che nessuno lo raccoglierà.

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