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Taiwan mette la freccia L’Italia si preoccupi

da Redazione

Passato inosservato, il sorpasso nel Pil pro capite deve far riflettere. Altro che ripresa: le previsioni per il 2010 parlano di un +4,7%.

Della Spagna, gli italiani si erano accorti eccome, al punto che oggi magari c’è perfino un po’ di Schadenfreude nel loro contemplare i guai dell’economia spagnola che, con l’ultima crisi, fa marcia indietro rispetto al recente sorpasso dell’Italia nel reddito pro capite. Ma l’analogo sorpasso effettuato da Taiwan sembra invece essere passato inosservato. Nessuno ne ha parlato. Eppure, eccolo lì. Espresso in ppp (purchasing power parities, che misurano il reale potere d’acquisto al di là delle vagarìe dei cambi), nel 2009 il pil per abitante di Taiwan è stato praticamente uguale a quello italiano: 30.200 dollari. Solo che l’ultimo trimestre dell’anno ha visto ripartire il pil taiwanese alla grande, mentre quello italiano incespicava una volta di più; e l’inizio del 2010 è ancora trascinante per l’isola e mogio per la penisola; per l’intero anno, le previsioni sono rispettivamente più del 4,7% e meno dell’1%. Il sorpasso, signori. Che più sorpassoso non si può. Taiwan non è un Paese. O almeno non sembra tale alla maggior parte dei Paesi del mondo, salvo una ventina, del resto non fra i più importanti. La maggior parte dei governi del mondo finge di credere che Taiwan sia una provincia della Cina. Su questa definizione, as it happens, sono d’accordo anche i più diretti interessati, cioè i governi di Pechino e di Taipei. La differenza? Pechino sostiene che coloro che effettivamente comandano sull’isola sono ribelli senza legittimazione, Taipei per parte sua dice che sul continente a comandare sono dei banditi. Pechino ha chiarito che una dichiarazione d’indipendenza da parte di Taiwan sarebbe un casus belli, e ogni tanto compie in zona esercitazioni militari intese a rammentare la cosa ulbi et olbi. Insomma, i comunisti cinesi preferiscono essere considerati dai governanti di Taipei alla stregua di briganti e rivoltosi piuttosto che come il governo legittimo della Cina, esclusa però Taiwan. Questo insolito e laborioso equilibrismo politico non impedisce alla Cina di essere ormai la seconda economia mondiale e il primo esportatore, e non impedisce a Taipei di continuare a essere un grande esportatore e un Paese prospero e tecnologicamente molto avanzato. Ci sono anche le ombre, beninteso. Taiwan ormai da anni affronta la stessa problematica economica degli altri Paesi sviluppati: le industrie ad alta intensità di lavoro, quelle su cui si è basato il decollo quarant’anni fa, finiscono nei Paesi dove la manodopera è a buon mercato; a Taiwan rimane il loro nucleo pensante, insieme alla ricerca. La realtà dell’economia taiwanese è quella di un legame sempre più stretto con il gigante oltre lo stretto. Gli investimenti taiwanesi in Cina valgono ufficialmente 75,6 miliardi di dollari (dato del 2008), ma ci sono stime non ufficiali che vanno da 150 a 300. Sul continente operano 70.000 imprese taiwanesi e vivono un milione di espatriati (o rimpatriati, a seconda di come li si voglia considerare). La ripresa della Cina, in effetti, si è trascinata dietro anche quella di Taiwan. In gennaio l’export attraverso lo stretto di Formosa è cresciuto del 187,8% rispetto al gennaio 2009, dopo un aumento del 96,7% dicembre su dicembre. Per contrasto la crescita negli stessi due mesi delle esportazioni verso gli Stati Uniti, che per Taiwan sono il secondo mercato, è stata del 13,7 e del 4%. “L’economia di Taiwan sta beneficiando della moderata ripresa globale e più di tutto della crescente domanda della Cina”, riassume Wai Ho Leong, economista alla Barclays di Singapore. Ma quello che era un rapporto privilegiato, anche se intralciato dalla necessità di mettere di mezzo a volte qualche Paese terzo come foglia di fico, sta oggi impallidendo di fronte all’espansione globale della Cina. La costituzione di una sfera di influenza cinese in Asia ha fatto un ulteriore passo avanti con l’entrata in vigore dell’accordo fra la Cina e l’Asean, l’Associazione economica che raggruppa dieci Paesi asiatici. Taiwan, per questi Paesi, non esiste. Almeno ufficialmente. Di qui l’urgenza di trovare un accordo organico con la Cina, che non è solo un esportatore ma anche il più cospicuo mercato dell’Asia e nei prossimi anni anche la più sicura fonte di crescita economica. Il presidente taiwanese Ma sta spingendo per il suo Accordo quadro per la cooperazione economica. Secondo il governo, questo accordo farà crescere l’export del 5% all’anno e l’import del 7%, permetterà di creare più di 260.000 posti di lavoro. L’opposizione non è d’accordo, dice che ne va di mezzo la sovranità del Paese: ha completamente ragione e chiunque può rendersene conto con facilità. Ma la grande manifestazione di piazza con 100.000 dimostranti effettuata alla fine dell’anno scorso non ha fermato l’accordo. Come osserva Wai Ho Leong, “L’economia continuerà per tutto l’anno a essere galvanizzata dagli ordini dalla Cina grazie all’accordo proposto, che ridurrà i costi del commercio”. Di fronte a questo, a molti fra gli abitanti dell’isola le considerazioni di sovranità sembrano secondarie.

Paolo Brera

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