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Superbowl, trionfano Brees e i Saints New Orleans torna a vivere

da Redazione

È la storia che un po’ tutti in America (tranne, sicuramente, a Indianapolis), volevano veder rappresentata. La storia di una città che si rialza, New Orleans, dopo l’uragano Katrina, delle difficoltà che possono essere superate, della luce dopo la crisi. Alla fine vincono i Saints 31-17 dopo essere stati sotto 10-0. E’ la vittoria del quarterback Drew Brees, Mvp della partita, ma anche di Tracy Porter, autore dell’intercetto che spezza in due il Superbowl numero 44.

Era la squadra sfavorita, nel corso della partita tutte le congiunture sembravano sfavorevoli. Per non parlare della storia recente della franchigia, che ha corso seriamente il rischio di venire spazzata via dall’uragano Katrina. Eppure alla fine i New Orleans Saints ce l’hanno fatta. Spinti da quasi tutti gli Usa che ancora hanno negli occhi la tragedia di quella città in ginocchio, alle prese con la crisi e la disoccupazione, con i propri figli e fratelli a combattere in Medio Oriente la guerra contro il terrore, a chiedersi ancora una volta se dalle difficoltà si può uscire vincitori, se chi è messo alle corde può davvero assestare il colpo del ko che ribalta le sorti. Se esiste ancora, insomma, la vecchia morale americana che Barack Obama ha riassunto nel suo riuscito slogan “yes we can”. Ce la possiamo fare.
E Drew Brees e i suoi Saints ce l’hanno fatta. Hanno battuto nel Superbowl n. 44 gli Indianapolis Colts di Mr. America Peyton Manning, anche lui – guarda caso – di New Orleans, figlio di quel Archie Manning che guidò i Saints nel periodo più fulgido della loro non certo travolgente storia, co-protagonista generoso del salvataggio della franchigia della propria città quando dopo la devastazione non restava più niente, un campo di gioco, gli spogliatoi, i soldi per pagare i giocatori. È una bella favola dedicata a chi vuol credere che chi cade può risorgere, se la vogliamo leggere dal punto di vista emblematico (come hanno fatto in molti, domenica sera, oltre Oceano). Ma soprattutto è stata una gran bella partita, decisa da un singolo episodio che però è andato semplicemente a confermare l’inevitabile, e cioè la lenta e paziente costruzione di un teorema di piccoli passi che Drew Brees, qb dei Saints, ha costruito gioco dopo gioco, lancio dopo lancio, yard dopo yard, tenendo in campo la difesa dei Colts e lasciando il micidiale Manning a rigirarsi il casco tra le mani, a bordo campo. Perché la chiave della partita, alla fine, è stata questa: i Saints non sono mai andati nel pallone, anche quando nel primo quarto si sono trovati sotto per 10 a 0 (solo una volta il Superbowl è stato vinto da una squadra in svantaggio di dieci punti), anche quando l’attacco faticava a trovare il ritmo giusto e la difesa proprio non riusciva a prendere le misure al no-huddle offense di Peyton Manning, che prima dello snap era lì a sbracciarsi e a urlare ordini ai compagni come un capitano veterano ai propri marines mentre dappertutto sibilano le granate. Piccolo inciso simbolico: a rompere il ghiaccio e a segnare il primo touch down della partita è stato Pierre Garcon, wide reciver originario di Haiti, che prima del match aveva fatto il riscaldamento con la bandiera della propria patria ferita dal recente terremoto. Quasi una regia occulta dietro questa partita, come spesso accade (ma quasi sempre solo dall’altra parte dell’Oceano).
Dicevamo che i Saints pur costretti a rincorrere non si sono demoralizzati. Hanno messo a segno i primi tre punti, quindi hanno avuto l’opportunità di pareggiare ma sono stati fermati dal muro difensivo dei Colts a un passo dal touch down, per recuperare rapidamente il pallone e riprendersi proprio allo scadere quei tre punti obiettivo minimo gettato alle ortiche un paio di minuti prima (6-10 all’intervallo). La ripresa si apre con un coup de theatre: New Orleans avrebbe dovuto consegnare la palla a Indy con un bel calcione del proprio kicker Garrett Hartley, che invece spara corto un on side kick (un calcetto laterale) che rimbalza come una saponetta tra le mani di un avversario e viene prontamente recuperato dai Saints. E qui appare chiaro che l’inerzia della partita è girata. Lo si vede dagli occhi di Peyton Manning, inquieto sulla side line, ad aggirarsi come un leone in gabbia. I Saints passano in vantaggio (13-10) grazie a un corto lancio di Brees per uno sgusciante Thomas che sfrutta tutti i blocchi possibili e intoccato si tuffa in end zone. I Colts tornano avanti poco dopo con una corsa di Addai che va a chiudere un altro impeccabile drive condotto da Peyton Manning, poi c’è tempo per assistere ad un lungo field goal (51 yard) fallito da Stover sotto gli occhi dell’immenso, ma infortunato, Vinatieri, e di un field goal realizzato invece da Hartley. Siamo 17-16 per Indianapolis a inizio del quarto periodo: sette volte Manning e co. si sono trovati ad affrontare finali con scarti di meno di quattro punti in stagione, e sette volte alla fine l’hanno avuta vinta. Ma ai Saints questo non interessa: a Drew Brees basta tenere in mano il pallino del gioco, consegnando palla ai running back per incrinare il muro dei Colts e poi pescare i propri ricevitori larghi, esterni. La politica della formichina paga ancora, e Brees alla fine pesca Shockey, il proprio tight end, un vero duro, su una traccia di 2 yard, dritto in end zone. Si tenta la trasformazione da due per frapporre tra sé e i rivali finalmente un divario di 7 punti, trasformazione che riesce grazie a un tuffo da contorsionista di Lance Moore, impresa prima giudicata non valida dall’arbitro a un metro di distanza e poi (grazie, tecnologia) giustamente confermata dopo l’instant replay. Un altro episodio favorevole a New Orleans, ma tutto quadra nel contesto di un destino granitico nel proprio svolgimento cinematografico, o cinematografico nel proprio granitico svolgimento, che dir si voglia. A questo punto siamo 24-17 per i Saints, ma la partita è tutt’altro che finita, c’è tempo ancora da giocare e Peyton Manning è una macchina che non s’inceppa mai. Ma ne siamo così sicuri? Sì perché a questo punto è un intercetto a spezzare in due la partita, un intercetto che forse (anzi, senza forse) è più responsabilità di Waine che di Manning. Ma a Tracy Porter tutto questo non interessa, lui ha il vento che fischia nelle orecchie, e forse anche le note della famosa canzone sui santi che marciano, e grazie anche a un blocco teleguidato marcia anzi vola, vola fino in fondo, 75 yard su una nuvola, per il 31-17 che sarà anche il punteggio finale. Certo, per i Colts il tempo per un miracolo ci sarebbe anche (ne hanno già fatti di simili in passato), ma non è la sera giusta. Il break questa volta non riesce a Manning, che guadagna yard mentre il tempo scorre, inesorabile. E anche il tentativo di accorciare le distanze si spegne, alla fine. Mentre inizia il sogno dei Saints, mentre la gente si riversa nelle strade, a New Orleans il carnevale è già iniziato.

Loris Pironi

 

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