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Copenhagen, da oggi il vertice sul clima

da Redazione

Il più grande vertice sul clima della storia, con 15mila partecipanti in rappresentanza di 192 Stati, si apre oggi a Copenhagen, con la ricerca di un accordo per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e racimolare miliardi di dollari di aiuti e tecnologie pulite per i paesi poveri. All’interno il "video shock" che ha aperto i lavori.

 

I rappresentanti politici riuniti da oggi a Copenhagen hanno la possibilità di decidere quale sarà il giudizio della storia su questa generazione: una che ha capito la minaccia e che ne è stata all’altezza con le sue azioni oppure una talmente stupida da aver visto arrivare la catastrofe e di non avere fatto alcunché per impedirla. Vi imploriamo di fare la scelta giusta". La conferenza di Copenhagen sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, considerati i principali responsabili del riscaldamento del pianeta, si apre oggi in un clima un poco più ottimista dopo alcuni annunci degli ultimi giorni. L’obiettivo fissato alla vigilia del vertice danese è quello di giungere ad un nuovo Protocollo in stile Kyoto (in scadenza a fini 2012), all’interno di una cornice concretamente vincolante per le potenze che lo sottoscriveranno. Un ‘Kyoto 2’ che, già da ora, si preannuncia deludente rispetto alle richieste avanzate dalla comunità scientifica che da anni tiene il fenomeno climatico sotto controllo. Il clima in Danimarca – è non è un gioco di parole – è teso: lo spettro di Genova 2001 aleggia davanti all’innocente statua della sirenetta. Ieri alle tredici è bastata una borsa lasciata incustodita nell’affollato salone degli accrediti a bloccare per mezz’ora l’unico accesso al Bella Center, i 121 mila metri quadrati di spazio aperto che ospiteranno – per 12 giorni – la Conferenza climatica dell’Onu. Sui volti degli uomini della vigilanza si leggeva l’espressione preoccupata di chi è sul punto di fare tilt. Il governo liberalconservatore danese ha varato due settimane fa una norma che consente di fermare per 12 ore (invece che delle precedenti 6) chiunque si ritenga possa partecipare a un atto di disobbedienza civile. Allo stesso modo, un manifestante “colto in azione” potrebbe essere incarcerato per 40 giorni qualora la polizia riscontri che il suo comportamento le ha “impedito di esercitare il proprio mandato”. Sino all’introduzione della legge, era prevista soltanto una multa. Per non incrinare la fama di “popolo felice” e ospitale, le autorità si sono premurate di stampare un dépliant di otto pagine, intitolato “Welcome to Denmark” e scritto in cinque lingue (non c’è l’italiano, e non è una sorpresa: nemmeno a Berlino le indicazioni nei musei sono in italiano. Nonostante questo, il 5 dicembre davanti alla Brandeburgo Tor c’era un manifesto che invitava a partecipare al No B Day), in cui auspicano “che incontri e manifestazioni collaterali si svolgano in un clima amichevole”. In caso contrario, è spiegato che fermi e perquisizioni saranno possibili in ogni circostanza. “Gli stranieri – si precisa – dovranno anche dimostrare di avere abbastanza soldi per mantenersi nel Paese”. Tannie Nyboe, portavoce della campagna “Climate Justice Action”, sostiene che “in questo modo si limita la libertà di espressione” e “si insinua che chiunque abbia da ridire sulla questione Clima può essere considerato un criminale”. “Riteniamo probabile delle intemperanze da parte dei manifestanti inclini alla violenza”, ribatte il responsabile delle operazioni di polizia, Mogens Lauridsen. Anche lui, non ha mai avuto una forza così numerosa. Per monitorare i 30 mila visitatori attesi, sono stati messi a disposizione seimila agenti su un totale di 11 mila dell’intera polizia danese. In caso di emergenza si potranno superare le novemila unità. Subito fuori il centro cittadino, un deposito è stato attrezzato come centro di reclusione temporaneo da 350 posti. Il nemico vero sono i Black Bloc che paiono essere sul punto di convergere verso la sirenetta. I primi giorni potenzialmente a rischio sono il 12 e il 13 dicembre. Poi, con l’arrivo dei leader, potrebbe non esserci più tregua. La decisione dei leader mondiali di partecipare alla conferenza ha fatto crescere le speranze dopo che a novembre Rasmussen aveva avvertito che stava scadendo il tempo per raggiungere un trattato legalmente vincolante. L’obiettivo di Copenhagen è quello di arrivare a un accordo politico e fissare una nuova scadenza nel 2010 per i dettagli relativi ai vincoli legali del nuovo trattato. Il patto di Kyoto impegna le nazioni industrializzate a tagliare le emissioni entro il 2012 e anche i suoi sostenitori ammettono che esso rappresenta solo una goccia nel mare, mentre le temperature mondiali salgono, soprattutto dato che Washington non ha voluto ratificare il trattato. Questa volta, l’idea è di ottenere la partecipazione dei principali emettitori, tra cui Cina e India, per evitare l’aggravamento delle ondate di siccità, della desertificazione, degli incendi, dell’estinzione delle specie e dell’innalzamento dei livelli dl mare. Il vertice sarà un test per capire quanto le nazioni in via di sviluppo resteranno in trincea, per esempio insistendo che le nazioni ricche devono ridurre le emissioni a effetto serra almeno del 40% entro il 2020, molto più di quanto offerto dagli stati più industrializzati. De Boer vuole che le nazioni sviluppate concordino riduzioni delle emissioni entro il 2020 e invece nell’immediato aiuti per 10 miliardi di dollari l’anno per aiutare i paesi poveri a far fronte alla sfida. Il responsabile Onu vuole anche che i paesi in via di sviluppo comincino a rallentare le proprie emissioni. Cina, India, Messico, Brasile e Sud Africa attribuiscono la maggiore responsabilità della situazione attuale ai paesi ricchi e giudicano insufficienti gli impegni presi. Perciò rilanciano: per arrivare ad una taglio del 50% entro il 2050 i Paesi ricchi dovrebbero assumere il 40-45% dei tagli al 2020 e l’80-90% al 2050, considerando il 1990 come anno di riferimento. Inoltre, aggiungono, il costo delle minori emissioni dei Paesi più poveri dovranno comunque essere finanziati dalla metà più ricca del pianeta: diversamente i poveri sarebbero condannati a rinunciare allo sviluppo. E così l’India si dice disponibile a tagliare del 20-25% rispetto al 2005 la propria intensità carbonica (cioè la quantità di emissioni in rapporto al Pil) mentre la Cina propone una soglia del 40-45% delle emissioni rispetto al 2005 e il Brasile si ferma a meno 36,1-38,9 per cento. Tanto per avere un’idea delle cifre in ballo, i cinesi hanno calcolato che per raggiungere il loro target occorre una spesa di 30 miliardi di dollari l’anno. E stiamo comunque parlando di tagli che non comportano una riduzione delle emissioni ma una loro minor crescita rispetto a quanto farebbero in assenza di interventi.


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