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Su Copenhagen regna l’incertezza

da Redazione

191 Paesi alla conferenza sui cambiamenti climatici. Molti dubbi aleggiano sui concreti risultati finali.

Il 2012 sarà l’anno in cui termineranno le disposizioni sulla riduzione del gas serra prevista dal Protocollo di Kyoto. A Copenhagen, dal 7 al 18 dicembre, 191 capi di stato avranno nelle loro mani il destino di questa Terra ai limiti della sopravvivenza. Saranno abbastanza consapevoli di avere sulle loro spalle una responsabilità enorme di fronte ai sei miliardi di persone che popolano questo nostro pianeta malato? “La vostra personale partecipazione rappresenta un contributo fondamentale al buon esito della Conferenza Onu sui Cambiamenti climatici”, ha scritto il premier Rasmussen nel suo invito. “I nostri sforzi congiunti verranno giudicati dai cittadini del mondo il 18 dicembre quando si chiuderà la conferenza”, ha scandito. Il 6 novembre a Barcellona si è conclusa la fase finale dei negoziati di preparazione alla Conferenza. E molte sono le perplessità su un evento monstre che rischia di essere la classica montagna che partorisce un topolino. E’ vero il G 2, Cina e USA, sembrano puntare decisamente verso la Green Economy, per salvare se stessi e il pianeta, ma soprattutto perché s’intravvede in essa una delle chiavi per risolvere la crisi e creare nuovi posti di lavoro per far fronte allo spettro della disoccupazione globale, che sarà forse l’eredità più pesante che segnerà le vite di milioni di famiglie in tutto il mondo. Specialmente nei paesi avanzati. In questi giorni abbiamo assistito ad un balletto di dichiarazioni cino-americane che smentivano quello che avevano detto il giorno prima. Ma a tutt’oggi c’è un fatto incontrovertibile: negli USA la nuova proposta di legge che dovrebbe limitare le emissioni e promuovere le rinnovabili non è ancora passata al Senato. E anche se passasse contiene ancora dei target molto modesti: -4% di emissioni rispetto al 1990. Il messaggio è devastante: con questi presupposti da parte del primo responsabile di emissioni insieme alla Cina, difficilmente i paesi emergenti come l’India e Brasile, e i paesi in via di sviluppo prenderanno impegni accontentandosi degli sforzi notevoli a cui si sono già impegnati sia l’UE che il Giappone (-25% rispetto al 1990). “I negoziati procedono con una lentezza glaciale”, ha detto nei giorni scorsi a New York Ban Ki-moon, “e per raggiungere un accordo abbiamo a disposizione ormai soltanto 15 giorni effettivi di trattative”. Il Segretario dell’ONU è arrivato quasi a mimacciare i capi di stato, avvertendoli che un fallimento a Copenhagen sarebbe “moralmente ingiustificabile, economicamente miope e politicamente avventato. In dieci anni la situazione diverrà irreversibile”. L’Europa può ricavarsi un ruolo di traino, di pesce pilota. Delegazioni di parlamentari europei sono in giro per il mondo per convincere le altre potenze a presentarsi a Copenhagen con un piano di riduzione delle emissioni degno di questo nome. Le preoccupazioni maggiori provengono appunto dai quattro maggiori Paesi non-europei. Oltre agli USA di Obama (dai quali ci aspetta molto dopo le sue ultime dichiarazioni catastrofiste), al Brasile, si chiederanno risposte vere nella lotta alla deforestazione, contro la quale, fino ad ora, si è fatto troppo poco. I nodi più difficili da sciogliere, però, riguardano soprattutto la Cina e l’India, Paesi che hanno cominciato ad inquinare da pochissimi anni e che quindi si considerano “in credito” di emissioni rispetto ai Paesi di prima e seconda industrializzazione. La Cina, per bocca del Presidente Hu Jintao si è presa un troppo generico impegno per una significativa riduzione delle emissioni. L’India a più riprese ha precisato che difficilmente da Copenhagen potrà uscire qualcosa di più di un accordo di massima. Strasburgo sposta la posta molto più in alto: un patto di riduzione del 25-40% rispetto ai livelli di emissioni del 1990 entro il 2020 per i Paesi avanzati, e del 15-30% per i Paesi in via di sviluppo, da rivedere ogni 5 anni per aggiornare le aspettative al progresso tecnologico. E dovrebbe investire almeno 30 miliardi di euro all’anno a partire dal 2020 per aiutare la riconversione energetica dei Paesi terzi. Ma diversi Paesi dell’est, capitanati dalla Polonia, puntano i piedi e dicono che non c’è “trippa per gatti”: hanno già fatto sapere di non avere nessuna intenzione di sobbarcarsi il peso dei Paesi in via di sviluppo in modo sproporzionato rispetto alle loro capacità.

Saverio Mercadante

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