La “gioventù errante” è al centro delle Giornate Internazionali del Pio Manzù: sono una “potenza nomade” schiacciata dalla precarietà ma che non ha paura di guardare al futuro con ottimismo, senza arrendersi
Errare. Non nel senso di sbagliare, nel senso di vagare. In cerca di una meta? Perché no, ma non è strettamente necessario. L’importante è non stare fermi, non impaludarsi in convinzioni e cliché, non rinunciare agli ideali in cambio del tepore di un equilibrio che (purtroppo ce ne stiamo accorgendo) è decisamente aleatorio.
La crisi è un dato di fatto. La si può leggere con gli occhi degli economisti, che hanno davanti a sé una linea curva oscillante, un moto ondoso di picchi negativi a cui fanno seguito inevitabilmente impennate verso l’alto, una visione che – beati loro – porta con sé in maniera spontanea un innato ottimismo (dopo ogni crollo c’è una risalita). Ma la crisi la si può anche percepire, per quanto ci è possibile, forse meno arida, più concreta, nelle conseguenze antropologiche di una società in rapido cambiamento. Una società peggiorata negli ultimi anni? Noi non lo diciamo, sarebbe troppo facile. Piuttosto prendiamo spunto dal tema delle Giornate internazionali di studio del Pio Manzù di quest’anno (23-25 ottobre) che riflettono sulla “Gioventù errante”, costretta a compiere il proprio cammino in un deserto di ideologie, in cui l’unica ombra sotto cui sostare è quella dell’incertezza. Questa gioventù errante, che nel week end in questione sarà sottoposta al vaglio di illustri esperti e grandi comunicatori, secondo lo spunto di partenza indicato dal Comitato Scientifico del Centro si trova di fronte a prospettive difficili a partire dal lavoro, precario, che a sua volta dilata la precarietà agli altri campi della vita, le relazioni sociali, il tempo libero. È una gioventù senza punti di riferimento ma carica di speranze, che ha archiviato le utopie eppure è capace di slanci di solidarietà, che viene guardata con scetticismo da chi non è più così giovane e nel contempo è considerata la sola speranza di un mondo finito alla deriva (le guerre, lo sfruttamento sconsiderato dell’ambiente) proprio da chi ci ha portato a questo punto.
Quest’estate si celebra il quarantennale di due eventi che hanno condizionato la società. Il primo è il Festival di Woodstock (nella foto al centro). Ha rappresentato un’epoca di pace e musica, ma anche – paradosso – di impegno sociale (il no alla guerra in Vietnam, per esempio). È stato il simbolo di un’energia positiva scaturita da centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze che davvero volevano che qualcosa cambiasse. Solo un sogno, per carità, ma sono i sogni che permettono di spostare sempre più in avanti i confini dell’uomo. Come ha dimostrato il secondo evento di quel lontano 1969, la conquista della Luna, un’impresa riuscita grazie all’impegno di tanti giovani, coraggiosi, convinti di un’utopia. Sognatori.
I giovani di oggi non sognano più, o meglio si limitano al sogno preconfezionato di diventare famoso grazie a un reality show? (A proposito, al Pio Manzù ci sarà anche Maria De Filippi). Noi preferiamo credere ad una generazione di giovani che nel deserto si fanno forza l’un con l’altro, sopravvivono e si fortificano, imparano a resistere alle tentazioni e meditano. Riflettono sugli errori, sui nostri errori. Per evitarli. Giovani che si fanno coraggio per guardare al futuro con ottimismo, malgrado tutto, malgrado la crisi (le crisi), malgrado la precarietà del lavoro, malgrado la difficoltà delle relazioni sociali, malgrado una società non sempre all’altezza del proprio compito.
E noi intanto cosa possiamo fare? Non possiamo certo limitarci a fare il tifo per loro. Intanto possiamo cominciare a capire il loro linguaggio. Quello rapido, sincopato, degli Sms. E poi internet ovviamente (a proposito, al Pio Manzù quest’anno ci saranno il fondatore della Apple Steve Jobs, gli inventori di Google Sergey Brin e Larry Page, e Mark Zuckerberg, creatore del cliccatissimo social network Facebook). Possiamo cercare di capire le loro espressioni artistiche (sì, anche il writing, i fumetti…) malgrado siano diverse dai canoni classici con cui siamo cresciuti. Possiamo provare a non escluderli dalla vita pubblica (la politica fa di tutto per disgustarli e allontanarli); possiamo cercare di condividere i nostri valori, quelli che ci teniamo ben stretti. Possiamo sforzarci di guardarli con un sorriso, lasciandoci andare ad un cauto ottimismo. In fondo li vediamo che lavorano a tempo determinato e poi finito l’orario si dedicano al volontariato (lo fa un italiano su dieci, e la metà sono Under 30). Li vediamo alle prese con mutui trentennali senza arrendersi mai. Perché allora non concedergli il beneficio della speranza? D’altro canto dobbiamo rassegnarci: il domani non appartiene solo a noi, ma soprattutto a questa potenza nomade, a questa generazione di giovani erranti che attraversano il deserto…