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Cassa integrazione La curva si stabilizza

da Redazione

I dati di maggio a San Marino parlano di CIG per 1.356 dipendenti, chiesta da 101 aziende.

Una curva che s’impenna verso l’alto a ritmo vertiginoso e poi si stabilizza. È questa oggi l’immagine dei numeri relativi al ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni nella Repubblica di San Marino dopo l’ultima Commissione di Collocamento. I dati di maggio parlano di CIG per 1356 dipendenti, chiesta da 101 aziende. Una manciata in meno rispetto al mese di aprile che già andava in controtendenza (1.392 lavoratori e 110 aziende), ma comunque non sufficiente per tirare un sospiro di sollievo. Se si torna con la mente a dicembre 2008, e sembrano passati anni ormai, si parlava di crisi nera per le 60 aziende interessate e i 689 dipendenti per i quali era stata richiesta la cassa integrazione. La notizia di questa stabilizzazione del ricorso alla CIG deve dunque essere accolta positivamente, ma non si può certo pensare che il peggio sia alle spalle. Anzi, si teme che dopo l’estate quella curva che oggi si è rallentata riprenda la sua corsa verso l’alto. Se gli orari di lavoro diventano un’opinione In Europa tetto di 48 ore settimanali. Sul Titano domina la contrattazione In virtù della trattativa del tavolo tripartito a San Marino in questi giorni si è tornati a parlare di flessibilità e, di conseguenza, di orari di lavoro. In effetti ci sono delle differenze interessanti tra la normativa sammarinese, quella italiana e il quadro previsto dall’Unione Europea, e comunque la materia merita di essere analizzata nel suo complesso. Partiamo dalla definizione stessa di orario di lavoro. In Italia il riferimento è il D.L. n. 66 dell’8 aprile 2003, “Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”. In questo contesto si inserisce la definizione di orario di lavoro, che è la seguente: “Qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Tale norma italiana fissa (art.3) “l’orario normale” di lavoro in 40 ore settimanali – da intendersi non necessariamente come settimana di calendario, ma come ogni periodo di sette giorni – e specifica che “i contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno”. Nella legislazione italiana ai contratti collettivi, di qualsiasi livello, è data facoltà di introdurre la possibilità di eseguire orari settimanali superiori e inferiori all’orario normale, a condizione che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla durata minore stabilita dalla contrattazione collettiva, riferibile ad un periodo non superiore all’anno. Per maggiore precisione, il riferimento all’anno non deve intendersi come anno civile (1º gennaio-31 dicembre) ma come un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell’anno ed il corrispondente giorno del-l’anno successivo, tenendo conto delle disposizioni della contrattazione collettiva. È indicato in 48 ore settimanali (ogni 7 giorni) il numero totale massimo di ore lavorative possibili, comprese le ore di straordinario, su un periodo di riferimento non superiore a 4 mesi da considerare come media.

E A SAN MARINO?

A San Marino l’orario di lavoro settimanale non è di 40 ore come in Italia bensì di 37,5 ore: la definizione rientra all’interno dell’art. 32 del contratto di lavoro industria, che specifica che deve essere “normalmente distribuito nei primi cinque giorni della settimana, con il sabato vacanza”. Una conquista sociale importante questa delle 37,5 ore, raggiunta in periodi sicuramente meno difficili di quello attuale, ma comunque considerata inviolabile. Ciò su cui le associazioni dei datori di lavoro e il sindacato non riescono a trovare una comune visione riguarda l’organizzazione del cosiddetto orario flessibile.

ORARIO FLESSIBILE

All’articolo 34 (il 33 parla di turni giornalieri e notturni), il Contratto Industria scrive: “L’azienda nel caso riscontri esigenze di carattere stagionale, di mercato, o ravvisi la necessità di un miglior impiego dell’apparato produttivo, può ricorrere all’orario flessibile, realizzando come media su un arco di tempo di più settimane l’orario di lavoro di cui al precedente art. 32. (le famose 37,5 ore settimanali, ndr). In tal caso dovrà precisare per iscritto alle OO.SS. e all’ANIS il numero delle ore, il numero dei lavoratori interessati e il periodo di ricorso. In detto arco di tempo l’orario di lavoro, salvo diversi accordi, non potrà essere inferiore alle 30 ore settimanali e superiore alle 45 ore settimanali”. “In un apposito incontro a livello aziendale e/o interconfederale saranno verificate le motivazioni aziendali definendo, tramite accordo, le modalità attraverso le quali avverrà il ricorso alla flessibilità, tenuto anche conto delle esigenze dei lavoratori”. Oltre a questo specifico articolo del contratto di lavoro si deve fare riferimento anche agli accordi del 2002 e del 2005. Il primo introduce la possibilità – per le aziende “coinvolte da maggiori richieste di mercato, ritardi negli approvvigionamenti, carenze di commesse, processi produttivi legati alla stagionalità, ovvero per esigenze tecnico organizzative” di ricorrere ad un orario flessibile di 20 ore annuali, con criteri predeterminati piuttosto rigidi e con una maggiorazione retributiva del 18%. Il secondo accordo, quello del 2005, specifica che delle 75 ore di straordinario annuali, 16 saranno lavorate su richiesta del datore di lavoro. Si tratta tuttavia di norme articolate e vincolanti che, nella pratica, finiscono per non essere applicate dalle aziende. Tornando all’articolo 34 sulla flessibilità, il contratto prevede oggi che, in mancanza di un accordo tra azienda, lavoratore e sindacato sulle modalità, non si potrà dare attuazione alla flessibilità dell’orario. È dunque in questo contesto che s’inserisce la richiesta delle associazioni di categoria – contro cui il sindacato ha subito elevato una barricata – di poter gestire, nell’ambito di quanto previsto dal contratto, nel contesto di esigenze di lavoro motivate e di un ampio preavviso al lavoratore, gli orari ordinari in maniera più flessibile. Oggi possiamo dire che, soprattutto nel caso delle aziende più grandi operanti in Repubblica, non sempre gli accordi sulla flessibilità vengono conclusi. E anche quando questo avviene, è sempre in seguito a contrattazione con i sindacati, contrattazione che portato a maggiorazioni di retribuzione ben superiori al 10% previsto dal contratto (si è giunti anche al 40-45% in diversi casi di aziende importanti), senza contare che in questa trattativa vengono inseriti anche ben altri aspetti, che alla fine vanno a gravare notevolmente sull’organizzazione e sul costo del lavoro.

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